Dalla terra dei kiwi all’America delle saline di Bonneville, nello Utah dei pieni anni Sessanta, con un sogno tutto chiuso in una moto. Letteralmente, perché il neozelandese Burt Munro da Invercargill, che amava quasi tutto della vita ma nulla come la velocità e la sua motocicletta, passò gran parte della sua esistenza a lavorare intorno a una vecchia Indian Twin Scout del 1920, alla ricerca di un record. Finché sentì la sua creatura pronta, si imbarcò su un nave per l’America, si pagò il viaggio facendo il cuoco, arrivò nel continente a stelle e strisce con una moto che destava la curiosità di un reperto, con oltre una sessantina di anni sulle spalle, con quasi niente in tasca e pronto all’avventura on the road che lo avrebbe portato sulle piste di sale dello Utah. A stabilire contro tutto e tutti il record di categoria di 305.89 km/h a tutt’oggi imbattuto. Ma questa storia di un sogno che si realizza raccontata sul grande schermo da Roger Donaldson in un questo Indian, la grande sfida interpretato da un Anthony Hopkins appensatito dalle rughe del tempo, dal lungo capello bianco e dall’occhio acceso, efficace e credibile come sempre ma molto meno gigioneggiante rispetto alle ultime interpretazioni, questa storia non è solo qui: è nel percorso. Come sempre dovrebbe essere nei racconti on the road, ciò che conta è ciò che avviene prima di arrivare, ciò che si incontra, ciò che ci cambia, anche se stavolta la traduzione del sogno in realtà dell’happy-end c’è interamente e non può non pesare nella confezione favolistica, anche se la storia è strappata fuori da uno di quegli stralci di realtà che superano ogni fantasia.
Come fantasiose potrebbero sembrare le intere due ore di un film che procede compatto anche nei momenti più prevedibili, esilarante e malinconico, e lungo una galleria di umanità incrociata e di situazioni che si creano d’un lampo, realistiche e irrealistiche insieme, dall’incontro col travestito comprensivo a quello col venditore di auto usate che nel suo garage vorrebbe tenerlo per sempre, dalla conoscenza dell’indiano che, alla fine, gli dà un addio regalandogli polvere di testicoli di cane per i suoi problemi di prostata al soldato in breve licenza dal Vietnam alla vedova in cerca solo di un po’ di calore nella notte. Fantasia a un passo da quella esistenza che il reale, eccentrico Munro costruì pezzo per pezzo, fatica su fatica, ripetendosi «Se è dura, lavora più duramente. Se è impossibile, lavora ancora più duramente» e fantasia che ha stravolto la vita di Donaldson che prima, nel 1972, ha realizzato su di lui un documentario e, poi, non è riuscito a staccarsi dal protagonista. Come dice oggi: «Sentivo che il mio film non rendeva giustizia a questo geniale ed eccentrico personaggio e così, dopo la sua morte avvenuta nel ’78, ho deciso che avrei fatto un film sulle sue imprese. Ho scritto e riscritto la sceneggiatura, finché non mi è sembrato di aver trovato la chiave giusta. Alla fine direi che la mia ossessione per questo film e per Burt non è stata così diversa dall’ossessione di Burt per la sua moto». E chi vedrà il film, se riuscirà a superare il guado dei cliché favolistica, capirà di che cosa parla Donaldson. Anche se non gli importa nulla di motociclette, velocità e record.
di Silvia Di Paola