di Aldous Huxley, Mondadori 2021. Prima ed. italiana 1933.
In quanto a distopie sociali, Huxley si schiera in mezzo al Bradbury di Fahrenheit 451 e all’orwelliano 1984, profetico come loro, meno apocalittico ma largamente efficace nell’analisi del tessuto connettivo sociale che fa di Utopia, la città apparentemente ideale dell’anno 2540. Nel libro di Huxley, opera che incarna la tensione tra progresso e disumanizzazione, l’essere umano è creato in laboratorio con una distinzione in classi, concepite e condizionate per i differenti incarichi che avranno nel mondo (individui alfa, beta, e così via). Per il supremo interesse dell’ordine sociale l’uomo ha rinunciato alla cultura, ai libri, all’arte e alla creatività, sacrificando la propria anima (rinuncia anche a un’idea di Dio) sull’altare della tecnologia e del controllo sociale.
«Non si poteva permettere alle caste inferiori – leggiamo – di sprecare il tempo della Comunità coi libri. […] Le primule e i paesaggi hanno un grave difetto: sono gratuiti. L’amore per la natura non fa lavorare le fabbriche». A Utopia nel 2540 si scoraggia la lettura e le gite all’aria aperta, distruggendo in un sol colpo il pensiero critico e promulgando un’etica consumistica.
Huxley immagina un mondo in cui gli individui sono allevati in laboratorio, progettati geneticamente per svolgere ruoli specifici in una rigida gerarchia sociale. Le emozioni e le relazioni interpersonali, considerate fonte di instabilità, sono sistematicamente eliminate. Il consumo è diventato la nuova religione, e ogni desiderio viene appagato istantaneamente grazie a un sistema che ha reso obsoleti la sofferenza, il dubbio e l’amore. È un mondo perfettamente ordinato, ma svuotato di ogni significato. Ma nel mondo di Huxley c’è anche qualcuno che non vive così: l’autore immagina, fuori da Utopia, una società di “selvaggi” che vive all’antica, che nel 2540 vuol significare nascere ancora da una madre e leggere libri di Shakespeare.
Ciò che colpisce, in questo affresco tanto lucido quanto inquietante, è la semplicità con cui Huxley anticipa alcuni dei dilemmi che oggi ci riguardano da vicino. Il progresso scientifico e tecnologico, che nei primi decenni del Novecento sembrava destinato a migliorare inesorabilmente la condizione umana, qui diventa strumento di oppressione. In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale e le biotecnologie stanno ridefinendo i confini dell’umano, la visione di Huxley appare di straordinaria attualità. I saggi pubblicati nel 1958 e allegati alle ultime edizioni del libro fanno rabbrividire per la loro attualità.
L’autore si diletta in un confronto con George Orwell che, in 1984, descrive una società controllata attraverso «il castigo e il timore di esso». «Nel mondo immaginario della mia favola – scrive in uno dei suoi saggi Huxley – il castigo è raro. Il governo realizza il suo controllo inducendo sistematicamente la condotta desiderata e per far questo ricorre a varie forme di manipolazione pressoché non violenta».
Il romanzo ci sfida a riflettere su cosa significhi essere veramente liberi. «Ma vi piace essere schiavi?», grida John il Selvaggio nell’ospedale dove vede morire la madre Linda. La felicità, ci suggerisce Huxley, non è solo la somma dei piaceri materiali, ma qualcosa di più profondo e complesso, che non può essere ridotto a una formula chimica o a un algoritmo. Il mondo nuovo è dunque un’opera che ci invita a resistere alla tentazione di delegare la nostra umanità a un sistema che, in cambio di un’apparente perfezione, di una “stabilità”, ci priva di ciò che ci rende veramente vivi: la capacità di scegliere, di sbagliare, di amare.
In definitiva, Huxley ci consegna una riflessione amara ma necessaria sul futuro dell’umanità. Il mondo nuovo è un invito a vigilare, a non cedere alla tentazione di un ordine perfetto ma disumanizzante, a difendere la nostra imperfetta ma preziosa libertà. Un libro che, come ogni grande classico, non smette di parlare al presente, con una voce che sa essere al contempo profetica e inquietante.