di Carlos Ruiz Zafón, Mondadori 2012
Terzo libro della saga sul Cimitero dei Libri Dimenticati, Il prigioniero del cielo recupera e allarga il gruppo di personaggi cui abbiamo iniziato ad affezionarci. Tutti hanno a che fare in qualche con il mondo dei libri e dell’editoria: c’è chi scrive e chi vende libri. Ed è proprio nel negozio di libri usati della famiglia Sempere che si snoda il fulcro del racconto: Daniel è ormai una figura importante sia per il negozio che per la sua famiglia. Il buon Fermín vigila come un angelo custode ma una figura torna dal suo passato per rivendicare qualcosa e rivelare scomode verità. Lo strano avventore si chiama Sebastián Salgado e, dopo aver acquistato una pregiata edizione de Il conte di Montecristo, lascia un messaggio: «A Fermín Romero de Torres, che è tornato dal mondo dei morti e possiede la chiave del futuro».
Inizia così l’indagine di Daniel sul passato di Fermín che lo porterà a scoprire come la prematura morte di sua madre, Isabella Gispert, sia in qualche modo legata al destino dello scrittore David Martín, imprigionato nel castello di Montjuïc per una serie di presunti omicidi e gravemente ammalato di schizofrenia, nelle cui tenebrose celle conobbe Fermín e, con lo stesso stratagemma di Montecristo, lo fece evadere affinché badasse a Daniel. L’incontro fra i due avvenuto nel primo romanzo fu dunque tutt’altro che casuale. Nell’evadere, Torres rubò una misteriosa chiave al suo compagno di cella Salgado, che è tornato appunto per reclamarla.
Il cuore del romanzo è quindi il legame tra Daniel e Fermín, sempre più saldo ma messo alla prova dalle recenti scoperte sul passato di quello che Daniel ha sempre creduto un coltissimo giramondo caduto in disgrazia. Fermín si rivela invece un personaggio sempre più complesso: ironico, tragico e irrimediabilmente segnato dalle cicatrici di un difficile passato. Zafón ci conduce nel suo inferno personale, e lo fa con dovizia di particolari, tanto che il resto della storia rischia di apparire in secondo piano, quasi offuscato dall’intensità del personaggio cui viene ritagliato un ruolo di assoluto primo piano.
Tuttavia qualcosa sembra qui essere sfuggito di mano a Zafón, diventato, con L’ombra del vento, l’autore spagnolo più venduto al mondo dopo Cervantes. È come se lo scrittore, tristemente scomparso nel 2020 a soli 55 anni, avesse tentato di ripetere il successo del suo bestseller tirando al massimo le potenzialità dei suoi personaggi. Ma qui la struttura narrativa risulta a tratti molto prevedibile, siamo lontani dalle vette sia de L’ombra del vento, sia della sua diabolica prosecuzione ne Il gioco dell’angelo. È come se l’autore fosse stato lui stesso prigioniero, prigioniero di se stesso e della propria vanità, perduto in piroette autocitazioniste. Quando qui leggiamo la frase «Ricordiamo solo ciò che non è mai accaduto», non possiamo non collegarlo ad un altro dei suoi romanzi, Marina.
«L’autocommento – scrive Domenico Starnone -, l’autodefinizione sono ormai così diffusi, così facilmente reperibili, che chi a vario titolo, per obbligo o per vocazione, si mescola alla ressa odierna di noi scrittori può risparmiarsi la noia di leggere i nostri libri e la fatica di cavarne un nocciolo, limitandosi a occhieggiare, leggiucchiare ciò che ne abbiamo detto in quella circostanza e in quell’altra e muovendo da lì per incensarci o insultarci. Non solo. I lettori stracolti, i chiacchieroni estrosi, i recensori malevoli o benevoli usano a volte il nostro formulario come se lo avessero autonomamente dedotto dallo studio dei testi. La conseguenza è che spesso ciò che si legge delle nostre opere è fondato su ciò che noi stessi abbiamo divulgato, evidenziando, secondo le occasioni, le ragioni segrete e le qualità nascoste delle nostre fatiche letterarie». Ecco, possiamo concludere che, per ciò che riguarda Il prigioniero del cielo, Zafón sia stato un lettore di se stesso eccessivamente entusiasta ed autoincensante.