Esce “Sono viva” dei fratelli Gentili, film presentato al Noir in Festival di Courmayeur
Un thriller dell’anima, un noir del precariato. Così hanno definito Sono viva, gli autori, registi e fratelli, Dino e Filippo Gentili con l’attrice, e loro cugina, Giovanna Mezzogiorno, che nel film ha un ruolo marginale ma incisivo. La loro prima pellicola è stata realizzata con un budget di appena 700 mila euro e solo 22 giorni di riprese. E dopo un triennale travaglio burocratico-amministrativo (è tra i progetti che avevano ottenuto il nulla osta per il finanziamento statale sotto il governo Veltroni, revocato dal suo successore Urbani e, infine, recuperato a suon di carte bollate), approda al cinema il 28 maggio, con un’uscita “protetta”, per ora solo in una dozzina di città capoluogo. Presentato con buon successo allo scorso “Courmayeur Noir in Festival”, il film ha un forte cast “teatrale” con a capo, protagonista assoluto, l’attore Massimo De Santis, affiancato da Giorgio Colangeli, Marcello Mazzarella, Guido Caprino.
Un De Santis assai convincente nei panni dell’ombroso Rocco, un giovane disoccupato che si inventa vari mestieri per pagare il mutuo e le spese di casa. Accetta quindi, per soldi, di fare la “guardia” per una notte a una ragazza morta in un incidente. Una particolare “veglia funebre” notturna nel decadente, isolato villone del ricco e sinistro imprenditore che lo ha assoldato, movimentata da una catena di tetri imprevisti. Dall’arrivo del fratello della defunta con fanciulle al seguito che, incurante della morta, fa scorrere litri di champagne e dosi quasi letali di eroina. Al comparire di un giovane, minaccioso rumeno con neonata al seguito, che rivendica la salma. Alla fine sarà proprio la ragazza morta a fargli ritrovare dignità e voglia di vivere. Giovanna Mezzogiorno è una barista, bella e sola, che svelerà a Rocco dettagli importanti sulla tormentata famiglia.
«Siamo partiti da uno dei racconti dell’ Asino D’oro di Apuleio dove un soldato veglia un cadavere – spiegano i due registi –. Poi sono arrivate le suggestioni generazionali per raccontare le dinamiche che si dipanano all’interno di una famiglia, dove i figli faticano a non commettere un parricidio per poter crescere in una società in cui dominano i vecchi. Abbiamo scelto un operaio precario come protagonista per far vedere come può reagire un uomo qualunque, che vive una vita che non ama, di fronte a una situazione straordinaria. E quando non regge più, commette un gesto che segna in qualche modo la sua rinascita». Giovanna Mezzogiorno ha accettato subito di partecipare al film: «Mi sono innamorata della sceneggiatura, dell’atmosfera da fumetto, alla Dylan Dog – spiega -. Tutti i personaggi sembrano appesi ad un filo, rapporti, persone, fatti non sono mai chiari e risolti del tutto. È bello essere un personaggio che entra ed esce, componendo un mosaico anche un po’ surreale. Credo stia qui la bellezza e la poesia del film».
L’attrice, reduce dalla giuria di Cannes, non risparmia qualche polemica verso il nostro sistema cinema. «Al Festival di Cannes, quest’anno, hanno vinto due film piccoli, uno thailandese (Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives) e uno del Ciad (A Screaming Man). In Francia la parola piccolo non esiste, è un’espressione tutta italiana: sono due opere di tutto rispetto senza major dietro o budget enormi. Da noi invece solo alcuni registi, anche in momenti di crisi come questo, lavoreranno sempre e saranno sempre distribuiti in centinaia di copie, anche se il film precedente è andato male, anche se il film è brutto, perché fanno parte della solita parrocchia». Difende il “vero” cinema italiano, quello che, dice, «Rischia sulla propria pelle, quello di attori e autori coraggiosi. Coraggio che manca a molte produzioni e distribuzioni che vanno solo sul sicuro». L’opera prima dei suoi cugini invece esce grazie all’impegno della Iris Film (che ha già distribuito il documentario sul terremoto dell’Aquila Sangue e Cemento e il film La fisica dell’acqua). «Ce l’abbiamo fatta grazie alla nostra passione, tenacia e a un pizzico di fortuna – dicono i fratelli Gentili -. Chissà perché viene così maltrattata un’industria tanto gloriosa come il nostro cinema».