La stagione delle piogge in Giappone potrebbe apparire alquanto insolita al nostro occhio occidentale: nonostante si inizino ad indossare abiti più leggeri e il caldo si faccia più intenso, la pioggia cade incessante per giorni e giorni, il cielo è cupo e tutta l’atmosfera contribuisce ad un clima alienante.
Così in A Snake of June – probabilmente la pellicola con più valenze artistiche della produzione di Shinya Tsukamoto – l’aria si colora di un blu straniante, si appesantisce di umidità e sudore, si addensa di respiri e sensazioni troppo a lungo soffocate. Ed è così che Rinko inizia a sospirare, a gemere, nella solitudine della sua casa lussuosa e troppo pulita, è così che nasconde i propri desideri al mondo e tenta di negarli anche a se stessa.
Una pellicola che è anche una parabola, una singolare riflessione sulla vita, sulla femminilità, il desiderio… sulla natura che trova il suo perfezionamento proprio nell’inevitabile incepparsi del meccanismo che rinnega le sue regole. Tanti gli elementi ricorrenti: prima fra tutti l’acqua nelle sue molteplici valenze simboliche, ma anche nei più consueti e inconsueti usi pratici che se ne possono fare; i cerchi, gli oblò, le aperture circolari sul mondo, gli scarichi cittadini… Oggetti che per noi possono non avere significati, ma per il fotografo che osserva e da lontano scatta ne acquisiscono di continuo.
Il corpo umano perde la purezza e la sacralità che tante filosofie orientali hanno tramandato: qui, come in quasi tutta la filmografia di Tsukamoto, è la contaminazione che conta, è la macchina che si fonde con il corpo e ne diventa naturale prolungamento. Il ricatto sfuma nel corteggiamento erotico, ma il piacere non nasce dal contatto; la distanza è annullata solo da oggetti tecnologici come telefoni cellulari, macchine fotografiche e vibratori, e questa sembra essere la sola soluzione percorribile per giungere alla liberazione, alla non-repressione, al grido catartico. Ma un altro tipo di contaminazione si fa strada nel bellissimo corpo di Rinko: la malattia che la divora da dentro, il serpente di giugno che le sta crescendo nel petto e che la vuole morta o spogliata della sua femminilità. Violento, estremo, di un erotismo che prepotentemente ipnotizza chi sta a guardare (noi come Iguchi, come poi Shingeiko), A Snake of June è, a ben guardare, un inno alla vita e alla natura, una candela che si consuma silenziosa in una Tokio indifferente, una città che non ascolta sebbene ci sia qualcuno che grida, lancia a briglie sciolte il suo desiderio troppo a lungo represso, chiede disperatamente aiuto mentre è costretto a darne. Intanto una chiocciola scorre lenta su una foglia di ortensia (un dipinto giovanile di Tsukamoto che diventa il leit motiv del film) e Rinko fa la sua scelta.
di Federica Aliano