Amenábar chiude la sua “trilogia della morte”
“Mare dentro, nell’alto mare. Dentro, senza peso nel fondo, dove si avvera il sogno…“. Così inizia la poesia, così finisce la vita di Ramòn Sampedro, classe ’43, costretto per trent’anni nel suo letto immobilizzato dal collo in giù, a desiderare la morte. Il regista cileno Alejandro Amenábar torna a narrare le storie degli abitanti del “Ghost World”, delle creature in penombra, ad un passo dal confine, chiudendo un’ipotetica “trilogia della morte”. Se The Others apriva il dialogo con la Grande Mietitrice con l’incoscienza del trapasso (la morte manifesta), Vanilla Sky ne trattava il tentativo dell’uomo di affrontarla attraverso la tecnologia (la morte ingannata), ora con Mare dentro c’è il sereno e lineare viaggio verso di essa, il suo anelante desiderio e la sua realizzazione (La morte sconfitta). Coraggiosa e pervasiva escatologia del dolore di un regista che sempre di più stupisce per le sue intuizioni stilistiche e autoriali, il film è in concorso alla 61ª Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e, a tutti gli effetti, ne potrebbe reclamare il podio. Un incredibile Javier Bardem si fa portavoce di un tema così duro e controverso come l’eutanasia, e lo fa attraverso un’abilità recitativa senza precedenti. L’attore, che ha già vinto a Venezia una ‘Coppa Volpi’ nel 2000, riesce a veicolare un senso di ottimismo e di serenità verso lo spettatore, cosa che sembra impossibile in un film così drammaticamente intenso. La storia di Ramòn Sampedro, l’uomo che ha segnato le coscienze di tutta la Spagna, ha commosso il regista al punto da volerla raccontare, insieme alla battaglia legale che ha condotto per affermare la sua libertà, e che ha lasciato traccia di sé in alcune poesie, raccolte nel libro Cartas desde el inferno, e nell’altro postumo Cando eu caia.
La voce di Sampedro è quella della sua penna fissata su un’asticella manovrata con la bocca, della sua arte che prepotente continua ad uscire. Ecco che la creazione artistica diventa così atto originario, un punto di rottura in cui l’essere reinventa un passato che nutre un avvenire favoloso, in cui l’uomo si rifugia. Si intenda, quella catarsi praticata da Sampedro attraverso l’introspezione, unita alle sue creazioni, come un tentativo di negazione del reale: così l’arte diventa nel senso freudiano del termine, “espressione del disagio”. Anche Nietzsche considerava la malattia, una preziosa occasione di salute mentale: “Avvalendosi di un’ottica binoculare, il malato osserva ciò che è apparentemente sano con il suo sguardo corrosivo per poi considerare ciò che è malato con l’occhio rigenerato della ‘grande salute’, quella che non può fare a meno della malattia come mezzo e amo di conoscenza“. Così Sampedro raggiunge finalmente il suo sublime gesto di libertà, da vedersi non come un insulto al dono della vita, ma come l’ultima azione di un uomo che l’ha amata sopra ogni cosa, lasciando ai suoi cari il suo immortale messaggio, le sue poesie. “I miei pensieri sono diventati i miei avvenimenti, il resto non è che la storia della mia malattia“. Un’altra affermazione nietzchiana che prendiamo per spiegare l’impossibilità di Ramòn di guardare indietro, di seguire le indagini della donna che, giorno dopo giorno, lo sta studiando.
Punto di forza del film i voli pindarici del protagonista, i ‘sogni volanti’ di Ramòn, tutti inevitabilmente incentrati nella rincorsa dell’elemento che ha segnato la sua esistenza, il mare. Sono proprio questi intermezzi digitali ad interrompere quella unità di spazio che gira tutta intorno alla stanza da letto del protagonista. Non possiamo in una visione contestuale dell’opera non notare una certa furbizia dei temi e delle scelte registiche effettuate. Anche l’uso di Javier Bardem è volto a dimostrare che l’attenzione del pubblico non può solo essere rivolta al senso stesso del dolore, ma anche a chi lo prova. È pacifico che colpisce di più che sia un attore aitante ed affascinante come Bardem ad essere storpiato per l’occasione, soprattutto in una società e in un ambiente che nasconde la paura della senescenza dietro lifting sia fisici che culturali. E così il film termina con frammenti assolutizzati dell’imminenza della fine, gettati con velocità, come un ultimo e veloce salto, eseguito con sicurezza ed esperienza da chi, rivivendo ogni notte in sogno il giorno dell’incidente, provava l’esperienza della morte. Forse sarà quel mare color vetro ad entrarci dentro, o forse saranno gli occhi, della stessa tonalità di azzurro, di Javier Bardem, pressante con quella forza spregiudicata con cui Amenábar ce lo ha imposto sullo schermo come lucida e determinata rappresentazione del dolore, o forse ci colpiranno le parole di un padre che non sa, che non capisce perché un figlio deve morire e soprattutto perché è lui stesso a chiederlo. Oppure si guarderà questo film con intelligenza e con quella razionalità di chi sa trarre creatività dal dolore, come ha fatto Ramòn Sampedro, che attraverso l’arte ha colmato i vuoti della propria esistenza ed ha reso la morte la sua ultima immensa ed inevitabile espressione vitale.
di Alessio Sperati