All’anagrafe il suo nome per intero era Henry Charles Bukowski ma come lui stesso spiegò “Henry mi ha stancato perché i miei genitori mi chiamavano solo per fare qualche commissione o perché volevano picchiarmi. Charles è ok solo sulla pagina scritta. È un gran pasticcio. Così dico alla gente di chiamarmi Hank. Il bravo vecchio Hank”. Il mondo lo ha conosciuto attraverso il significato dei suoi eccessi (alcool, scommesse e sesso), mentre le sue parole nude nella loro crudezza quotidiana e attuale, rappresentative di un universo invisibile alla letteratura classica hanno segnato l’inizio di un “aliterary style”, capace di infervorare ed accendere di passione intere generazioni. Facile introdurlo nella nicchia della beat generation il cui unico scopo sembra essere stato quello di irrompere negli schemi e distruggerli, eppure Bukowski ed il suo alter ego Chinaski sono al di fuori di qualsiasi classificazione, perché se una qualche rivoluzione è nata dal loro stile è stata del tutto involontaria e non programmata. Fuori dalle esigenze di una letteratura volta al successo, “il bravo vecchio Hank” ha risposto unicamente alla sua esigenza di narratore attraverso l’unico mezzo espressivo a sua disposizione, «Perché un uomo o è un artista o una mezza sega e non deve rispondere a niente altro, direi, se non alla propria energia creativa». Fino ad ora il cinema si era lasciato catturare dal sogno e dalle suggestioni del poeta maledetto (Storie di ordinaria follia, Barfly, Crazy Love) ma, probabilmente, Factotum di Bent Hamer con l’ottima interpretazione di Matt Dillon, è l’opera che più abbandona la ricerca e l’utilizzo di immagini precostituite per rincorrere ed agguantare l’essenza stessa di Bukowski. Realizzato in “low-budget” questo film è la prova concreta che, di fronte ad un buon progetto e ad un grande impegno interpretativo non esiste nessun problema economico capace di inficiare il risultato finale.
Nonostante Hamer insegua passo dopo passo Henry Chinaski tra bar, sbronze a buon mercato e donne facili da abbordare, non è alla ricerca del sensazionalismo e non si lascia mai andare al piacere d’ingrandire ed esasperare l’immagine dell’eroe perdente e perduto. Aiutati dai ricordi della vedova Linda, Hamer e Dillon hanno scoperto un’immagine inedita dello scrittore macho ed ubriacone tanto osteggiato dalle femministe durante gli anni Settanta. Il ritratto che giunge fino a noi è quello di un essere umano, ben lontano dal cercare la santificazione nel paradiso degli scrittori rinnegati ed autolesionisti. L’uomo timido, decisamente sovrappeso, ironico e tendenzialmente silenzioso che si aggira goffamente tra gli “ultimi” che lo circondano, ha come unico scopo quello di vivere a suo modo come se niente altro gli fosse possibile. Accetta la vita e la morte, trascrivendone le sensazioni ed il significato attraverso la sua capacità espressiva perché per lui «Scrivere è tirare fuori la morte dal taschino, scagliarla contro il muro e riprenderla al volo». Forse per alcuni questo ritratto potrà sembrare superficiale e perfino semplicistico, ma se si pensa all’uomo Bukowski, alla sua non necessità di stupire e scandalizzare per “contratto”, alla stessa inevitabilità della sua vita e a quella capacità sensazionale di rendere essenzialmente visibili e comprensibili anche i lati più oscuri del mondo, si comprende quanto forte e naturale sia la somiglianza con l’originale. Perché come lui stesso disse: «Il genio è un uomo capace di dire cose profonde in modo semplice».
di Tiziana Morganti