Siamo in piena unità di spazio, la sede è la tenuta di campagna di Franco Piavoli (il regista di Nostos: il ritorno), un luogo dove attori e comparse sono gli elementi di una natura mitologica con ninfe, centauri, i suoi mutamenti e armonie cromatiche. Una macchina da presa immobile coglie particolari invisibili e scorge gli abitanti della casa colti in una paradossale affollata solitudine. Contrasti e diversità classiste si instaurano all’interno della dimora patronale dove unico codice comunicativo è il suono di un pianoforte. Il protagonista, Antonio, esprime i suoi malumori esistenziali appuntando su un vecchio pc frasi celebri, teorie darwiniane sull’eguaglianza delle specie e dormendo. Nel sogno immagina il terrore di vedere la sede dal suo sapere, la sua ricca biblioteca, visitata da chi non ha diritto a evolversi, i suoi lavoranti africani. L’abilità recitativa si è dimostrata indispensabile a un tipo di opera così particolare nel suo genere come è Al primo soffio di vento, ecco il bisogno di affidarsi a un’attrice come Mariella Fabbris, fondatrice della Cooperativa Laboratorio Teatro Settimo e interprete nello stesso luogo di molti spettacoli.
Il suo personaggio è prigioniero di un passato che non esiste più e vaga sospinta da cenni d’arte, pensieri e versi che paradossalmente narrano di un amore nascente, quello di Giasone e Medea. Immobilità, curiosità assopita, prigionia. Il sottile suggerimento di un decadimento dei valori occidentali, troppo forzati al progresso delle tecnologie, può giungere solo da un paesaggio che di tali elementi ne fa solo comparse, ecco dunque che Piavoli fa parlare la natura piuttosto che i suoi attori, ponendo gli stessi riflessi solari in una condizione di partner recitativo per la Fabbris. Una teoria darwiniana ci dice che l’unica diversità tra gli esseri viventi consiste nei tempi e luoghi della loro scaturigine, e così padroni di casa e lavoranti, uomini e no, paiono così distanti, così diversi anche nel modo di comunicare con i propri simili. Hanno il dono comunicativo della musica, ma se i lavoranti africani suonano ritmi tribali e rievocano danze lontane, inneggiando alla vita, i padroni hanno il suono di un malinconico pianoforte e osservano l’esterno della loro gabbia esistenziale dietro sbarre auto-inflitte: il piano li avvolge finché non è la notte a farlo. E domani? È una domanda che mette paura, oggi più di ieri.
di Alessio Sperati