L’impeto politico-sociale di Oliver Stone abbraccia ogni epoca, utilizza grandi figure storiche con l’intento di far arrivare il suo ruggito espressivo, la forza delle sue conclusioni e la rabbiosa critica alla politica americana contemporanea. Chi ama questo regista non può non amare il suo Alessandro Magno che unisce la poderosa fotografia di Platoon al revisionismo di JFK, la dialettica di Evita all’impeto giovanilistico di Wall Street. Ma, in questo caso come in tanti altri negli ultimi due anni, l’intento non è la fedele rappresentazione storica di un personaggio realmente esistito, ma la costruzione di una vicenda umana “liberamente tratta” da una serie di eventi documentati. Il suo condottiero macedone assume così il volto di un bambino dai tratti poco mascolini, in fuga dalla prepotente e ossessiva figura genitoriale, da cui, nonostante le grandi distanze percorse (in una precisa direzione retta e longitudinalmente opposta alla sua terra natia), non riuscirà mai a liberarsi del tutto. In questo senso il film prende connotazioni tutte psicoanalitiche, dove il soggetto principale soffre chiaramente di un disturbo della personalità di tipo convenzionalmente chiamato “borderline” esplicabile in una sostanziale difficoltà di interrelazione comunemente intesa, unita ad un’accesa aggressività.
I due elementi sono facilmente riscontrabili. L’inadeguatezza della figura genitoriale (sia essa materna o paterna) si esprime nel loro rifiuto e nella fuga dagli stessi, ma anche nella incapacità di impostare rapporti umani secondo consuetudine (nel senso moderno del termine poiché qui si intende la fedeltà storica solo strumentale a un concetto): la donna è solo un animale da riproduzione e la figura maschile fa da palliativo a quel padre mai avuto accanto a sé (vedi il rapporto morboso con Efestione che diviene per lui tutto: padre, madre, amico e amante), fino a poter dire con certezza che tutta la sfera emotiva (amicizia, condivisione, desiderio sessuale) è limitata al solo universo maschile. Ma c’è una cosa che Efestione non può dare ad Alessandro ed è un figlio: è questa l’unica e sola (!!!) ragione che spinge il guerriero macedone a prendere una donna persiana in sposa (per altro una splendida Rosario Dawson che appare in un’intensa scena di nudo integrale). Il secondo elemento distintivo di personalità disturbata “borderline” è l’aggressività, facilmente comprovabile all’interno di una società che ne fa un veicolo di gloria o, peggio, il tentativo di diffusione di una stessa cultura che nel 323 a.C. si chiamava “ellenismo”, oggi si chiama “democrazia”. In questo senso non è nemmeno un caso che Stone scelga come prima battaglia quella tra Alessandro e Dario III che contrappone gli odierni territori di Iran e Iraq.
Dunque il pregio rappresentativo dell’Alexander di Stone non risiede nella pura e semplice immagine, pur ricchissima delle imponenti scenografie di Jan Roelfs e della fotografia di Rodrigo Prieto, ma nell’ardire del suo assunto e nella modernità dei suoi protagonisti. Alessandro, Efestione, Cassandro e Cleitus sembrano i personaggi di Boiler Room – 1 Km da Wall Street Ribisi, Diesel, Scott Caan e Nicky Catt, quei quattro ragazzi con lo scettro del potere economico in mano e il desiderio di dominare il mondo con le armi che il progresso ha messo loro a disposizione: la tastiera di un computer e quella di un telefono. Dall’universale della storia della civiltà umana si va al particolare dell’introspezione del singolo e dallo stesso si torna di nuovo all’universalità di una visione trasferibile in altri contesti, operazione quanto mai affascinante. Ma per questo Stone rischia di non venire compreso, un po’ come è successo al nostro Marco Bellocchio in occasione di Buongiorno, notte, dove alla fedeltà rappresentativa di un fatto storico, l’autore ha preferito una sublime e terapeutica introspezione tra i suoi conflitti con la sfera genitoriale. Troppo profondo per fare audience.
di Alessio Sperati