Che strano film questo Alexandra’s Project di Rolf de Heer: parte come un modesto tv-movie di seconda fattura, si trasforma in un thriller dalla componente sessuale molto accentuata e si conclude nelle maglie di un grottesco inusuale, a tratti ridicolo. Peccato che nel complesso la storia appaia assurda, troppo forzata, priva di qualsiasi possibilità di immedesimazione con i personaggi. Il protagonista maschile, vittima della vendetta della moglie Alexandra, rasenta l’imbecillità totale: si muove, parla e agisce come un bambolotto gonfiabile vuoto nell’anima e nei sentimenti, il che fa nascere il sospetto che non si tratti di una vera e propria scelta narrativa, ma che sia invece imputabile al volto inespressivo e gigionesco di Gary Sweet, popolare attore televisivo australiano. Non è da meno il personaggio centrale di Alexandra, di cui difficilmente si riesce ad accettare il repentino passaggio dal ruolo di moglie tradita e fragile a quello di crudele vendicatrice, per di più sessualmente vorace ed esplicita.
Anche in questo caso la colpa è da imputare a una sbagliata scelta di cast, poiché l’attrice Helen Buday, del tutto priva di fascino, non ha la stoffa per indossare i panni della dark lady mangiatrice di uomini e macchinatrice della diabolica punizione che affligge al marito. In compenso Rolf de Heer si dimostra regista eclettico, abile nell’attraversare i generi più disparati, dal musicale (Dingo, 1990) al drammatico (Bad Boy Bubby, 1993) dall’avventuroso (Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, 2000) al western interrazziale (The Tracker, 2001). Qui egli sperimenta una commistione tra il thriller sessuale e il docudrama, dando un’estrema importanza agli ambienti e agli oggetti: tutto il racconto si svolge infatti all’interno della casa-prigione (pochi sono gli esterni), dove, tramite videocamere, televisori, specchi e quant’altro, gli spazi e le superfici sono come moltiplicati, ampliati. Grande importanza hanno inoltre i giochi di luce, il contrasto tra luce e ombra e il buio come metafora dell’ignoranza e della solitudine dell’uomo. Tutto ciò non riesce comunque ad evitare che il film appaia statico, monotono, a tratti noioso, un thriller senz’anima.
di Simone Carletti