Il buio della sala, le luci dello schermo, le urla dei protagonisti, il passo lento e cadenzato della morte e una forma sconosciuta che si avventa come una belva sul corpo inerme di audaci camionisti spaziali o marinai delle stelle, qui eletti a vittime sacrificali di un’oscurità allucinante.
Un incontro/scontro da sempre prospettato nel cinema di fantascienza che in questo caso si tinge di nero (orrore) e di rosso (sangue): l’uomo e il diverso si sono spiati tra complotti e cospirazioni negli anni Cinquanta, avvicinati con intenti pacifici nei primi Sessanta, fondato società utopistiche nei burrascosi Settanta, giunti a visioni apocalittiche e catastrofiche nella gran parte degli anni Ottanta e massacrati con la fine del secolo. Con Ridley Scott siamo nei pressi del genere colto, metaforico, suggestivo, ricco di suspence, tensione, sorpresa, entusiasmo, abbandono. La vita si mostra come principio e riproduzione, la morte come penetrazione e annientamento e la paura come incubo inconscio.
I personaggi, tutti costretti in un labirinto d’acciaio a bordo della Nostromo, una nave dai corridoi claustrofobici, si risvegliano da un sonno letargico ed emergono da capsule rigenerative come nascituri al primo giorno. Il cinema si fa mito e l’uomo imbraccia fucili e lanciafiamme per estirpare una minaccia originata da un mostro il quale pietrifica con lo sguardo le sue vittime come una leggendaria Medusa.
Alien in origine Star Beast segna l’inizio di una fortunata tetralogia sempre affidata ad autori di indiscutibile validità, guidati da quella splendida figura mistica Ellen Ripley interpretata da una bravissima Sigourney Weaver, la quale subisce una metamorfosi evolutiva e distruttiva: donna/ufficiale nel primo episodio, madre/guerriera (dell’alieno e della piccola orfana Newt) in Aliens di James Cameron; Giovanna d’Arco destinata al sacrificio/suicidio in Alien3 per David Fincher, zombie rinato assieme al figlio mostro nella visione funerea e macabra di Jean Pierre Jeunet Alien: la clonazione.
Lo spazio visto dal regista inglese, che rilegge la tradizione fantastica (il viaggio e l’incontro con l’altro) e l’orrorifico (il terrore, il delirio psichico e la ribellione del corpo) discende dal lavoro di formidabili artigiani (inevitabile negare l’influenza subita da una certo manierismo espressionista gia presente, ad esempio, in Terrore nello spazio di Mario Bava). Il restyling dell’opera, interamente digitalizzata e ritoccata, con una scena aggiunta: “Il nido” in cui Ripley scopre i resti mummificati dei compagni, immerge lo spettatore in un oceano di suoni ed echi provenienti da un universo lontano eppure tanto affascinante. La musica minimalista di Jerry Goldsmith, veterano del genere (ricordiamo gli esordi per la serie Ai confini della realtà) la creatività di Hans Rudi Giger, amante delle avventure cyberpunk di William Gibson, etichettato come il successore naturale di Dalì e la sceneggiatura di Dan O’Bannon, restituiscono alla pellicola ancora oggi l’antico splendore di una volta.
di Ilario Pieri