Apnea: sospensione del respiro temporanea o patologica. Il titolo si incolla bene alla difficile realtà delle pellicole di casa nostra. Anche per Roberto Dordit, regista del film, l’ascesa all’olimpo delle sale è stata ardua. Apnea si presenta al pubblico con un anno di ritardo, nonostante vanti nel suo curriculum premi e partecipazioni a festival e rassegne. Poi è intervenuta la giustizia nei panni dell’Istituto Luce e di Nanni Moretti. Dunque ad avere il sopravvento nel circuito cinematografico italiano è sempre una dinamica suicida, salvo sperare in un deus ex machina? Forse si, ma il vittimismo non dovrebbe impedire una sana autocritica. Come in questo caso. All’inizio del film Claudio Santamaria è immerso nell’acqua come un feto nel liquido amniotico, e approfitta degli ultimi scampoli di vita per ripercorre mentalmente la sua drammatica avventura (in punto di morte succede così, no?). Il genere della storia, bisogna specificarlo, è il noir, questa volta ambientato nel Nord-Est d’Italia per raccontare il sommerso del lavoro in nero in tante fabbriche piccole e medie. Ma nel calderone, per dare consistenza alla zuppa, non mancano altri ingredienti: la salute mentale, i dissidi generazionali (la ragazza “scapestrata” ma domata a suon di soldi e vizi), l’amore per lo sport (il protagonista fa il giornalista per ripiego, una scelta poco credibile nella realtà italiana).
Purtroppo la sensazione è di confusione generale, anche perché alcuni personaggi sono appena tratteggiati e privi di identità. Bisogna aspettare la prima metà del film per distinguere il figlio di Franz dal piccolo Leo, affetto da una forma d’autismo. Stessa sovrapposizione, per buona parte della storia, anche tra i personaggi di Monica e Chiara. Stessi capelli lunghi, stessa figura sottile, stessi ammiccamenti all’indirizzo di Paolo (Claudio Santamaria). Per fortuna ci pensa quest’ultimo a staccarsi dallo sfondo monolitico: un attore che sta crescendo nel suo spettro interpretativo, e che rimane l’unica certezza di questo film. Labile il filo d’Arianna tra spettatore e narratore: non c’è ombra di suspense ma solo necessità di raccapezzarsi per non perdersi. A scongiurare il rischio di autoreferenzialità intervengono le già premiate colonne sonore. La musica cresce con il pathos della narrazione, passando dal triste, al malinconico, all’incalzante, per poi chiudere con la voce di Yves Montand, il sapore acre dell’ironia mista alla sofferenza.
di Annapaola Paparo