Esce l’8 ottobre il nuovo film del regista bolognese.
Il ritorno improvviso alla giovinezza nella seconda fase della vita. La mente, aggredita da una terribile malattia, che si chiude al mondo, al presente. Il morbo di Alzheimer che distrugge un uomo colto e affermato trascinando in un abissale buco nero anche l’adorata moglie che fino all’ultimo non vuole arrendersi alla triste realtà. È il tema angosciante e di drammatica attualità affrontato da Pupi Avati nel suo nuovo film Una sconfinata giovinezza, dall’8 ottobre in 200 sale cinematografiche. Fabrizio Bentivoglio è un noto giornalista sportivo che di colpo si ritrova a fare i conti con uno dei mali più vigliacchi del nostro secolo, che ti cancella il presente, catapultandoti senza rimedio in un antico limbo, fuori dalla vita. Un discesa agli inferi che tocca nel profondo anche l’amata moglie, docente universitaria colta e ricca, interpretata da un’intensa e tenera Francesca Neri, invecchiata di una decina d’anni per l’occasione.
«Mi sono occupato di questa patologia perché ho 72 anni – spiega Avati -, dunque sono un anziano nel pieno del secondo tempo della propria vita. In questa fase si vive una regressione, una nostalgia dell’infanzia. Nel film sono frequenti i riferimenti autobiografici: il diamante ritrovato, il cane Perché, l’incidente stradale in cui persero la vita i miei genitori e l’amico Nerio nato senza palato. La storia prende spunto da un fatto realmente accaduto nella mia famiglia, a mio suocero. E poi, dopo 41 film, ho ritenuto che fosse arrivato il momento di raccontare una storia d’amore».
Avati dice di aver “metabolizzato” la bocciatura del film a Venezia: «Sono rimasto sbigottito perché non sono aduso a certi comportamenti. Certo che questo lavoro – continua il regista – deve affrontare un pubblico molto alternativo, è un film che va totalmente controcorrente. Tutti oggi vogliono vedere commedie, film comici, una cosa che traspare anche dal numero di copie con le quali arriva nei cinema e che fa capire – sottolinea, ingiustamente polemico – la fiducia molto contenuta del distributore». Ma 200 copie, di questi tempi, per un film poetico ma fortemente angosciante, non ci sembrano davvero poche. Nel suo sempre più prolifico esercizio registico Avati non ha probabilmente pensato a che tipo di pubblico indirizzare un film tanto doloroso. Che non dà risposte, perché sull’Alzheimer ancora non ce ne sono. Chi ha vissuto in prima persona, come chi scrive, un dramma familiare di tale portata, uscirà dalla sala profondamente provato. Per tutti gli altri, un bel pugno nello stomaco.