Se c’è un contagio di cui dobbiamo davvero avere paura è quello dei lati più meschini della nostra natura. In questo enorme e meraviglioso organismo che è la terra, il virus siamo noi. Ne è convinto Roan Johnson che durante il lockdown ha sentito l’urgenza di raccontare quello che, a suo avviso, significava la pandemia. Lo ha fatto col film State a casa, una commedia molto nera, claustrofobica, con dei tratti di follia, interpretata da Dario Aita, Giordana Faggiano, Lorenzo Frediai, Martina Sammarco, Tommaso Ragno, prodotta da Palomar con Vision che lo distribuirà nei cinema dal 1 luglio.
La storia si svolge quando il mondo bloccato da una pandemia è in lockdown. Ma questo è un film su un altro virus, ben più pericoloso, che si nasconde nella natura umana. Quattro ragazzi sotto i trent’anni condividono un appartamento da tempo e, fermati dal contagio, si trovano ad affrontare ombre più grandi che vivere in quella situazione. L’occasione per fare dei soldi facili a scapito del loro equivoco padrone di casa porterà il film a un crescendo di tensione e delirio. Le scelte e le azioni dei ragazzi diventeranno sempre più ambigue mentre le conseguenze sconvolgeranno i loro sogni e speranze, paure e amori.
Il quarantacinquenne regista italo-inglese ha deciso che doveva osare, andando fino in fondo insieme ai personaggi da lui creati per raccontare questa metafora della nostra natura. “Il nostro sentirsi Dei, la nostra hubris ed egocentrismo sono diventati il sintomo della nostra stupidità e fragilità – spiega -. Volevo tornare in mezzo a quella generazione che di colpo, da dover essere la più sfacciata di fronte alla vita, era diventata la più insicura e debole. Chi avrebbe scontato di più questa fermata brusca del nostro mondo? I giovani, e quelli senza soldi. E come avrebbero reagito di fronte a tutto questo, se i valori erano gli stessi che ci hanno portato fino all’orlo della catastrofe?”.
I tutte le fasi del film ha seguito il mantra di essere onesto e coraggioso, mettendo in conto di fallire, scegliendo gli attori più giusti senza fare calcoli, optando per girare in piano sequenza rischiando di buttare via giornate di lavoro, e di provare un esperimento con il montaggio: “Usandone pochissimo all’inizio in modo che ogni taglio fosse davvero significante – chiarisce Johnson – e poi spezzando il film sempre di più mentre la storia diventava più nera insieme alla fotografia e la musica, mentre la fiducia fra i nostri protagonisti si incrinava, la realtà si modificava e si spezzava di fronte ai nostri occhi. Così mi sono ritrovato a entrare in zone a me sconosciute trascinato dai conflitti dei personaggi, quelli che permeano la nostra società: l’avidità, l’egoismo, il sentirsi superiori”.