Il Chili Palmer di Get Shorty aveva permesso ad un John Travolta ai ferri corti con la propria carriera di reinventarsi attore comico e uscire da quel dimenticatoio da cui Quentin Tarantino lo aveva ripescato per metterlo al centro del suo Pulp Fiction. Da allora un successo dietro l’altro, una seconda vita artistica. E allora via al tributo a Chili Palmer, al ricordo di quel pittoresco ex-strozzino convertito allo show-business che questa volta si innamora del mondo della musica o di chi lo rappresenta, sia questi una brillante ragazzina dall’ugola d’oro o una più stagionata produttrice da poco rimasta vedova di un caro amico. Questo è Be Cool e questa è Hollywood che ripesca in cineteca come fa la nostra piccola Italia, e così, mentre pezzo a pezzo va all’asta la mitica pedana dove Tony Manero ogni sabato sera faceva sognare i suoi estimatori, John Travolta torna a ballare, e lo fa proprio con Uma come in Pulp Fiction. Ma Be Cool è un film sull’industria musicale e allora, in questo calderone cinefilo mettiamoci anche Steve Tyler che ospita al suo concerto di Mansfield la debuttante Linda Moon/Christina Milian e il gioco è fatto, un gioco al massacro dove a farne le spese sono un film decoroso del ’95 e uno scrittore, Elmore Leonard, che da 40 anni rifornisce di idee l’industria dello spettacolo (Jackie Brown, Out of Sight, Brivido Biondo, A muso duro) a ritmi, è vero, decisamente alterni.
Colpa dello sceneggiatore Peter Steinfeld (Un boss sotto stress) o del giovane regista di Italian Job Gary Gray sempre in bilico tra “sound” e “video”, tra cinema e videoclip, il non essere riusciti a dare “ritmo” ad un film come Be Cool? Non parliamo di colonna sonora, quella è da hit, con gli Heart, Wind & Fire, i Kool & the Gang, i Black Eyed Peas, parliamo invece di ripetitività di situazioni, di personaggi altamente stereotipati e di confusione di intenti. Vera protagonista del film è la satira, quella contro i villoni di Bel Air dei boss degli Studios, la nuova mafia russa che compra etichette discografiche, le gang del rap e gli autisti gay di un metro e novanta che vogliono sfondare al cinema. Ma questa è la Hollywood dove tutto è possibile e se una giovane promessa della canzone può salire sul palco degli Aerosmith, teniamoci anche la mafia russa che si nasconde a Down Town, le sparatorie in pieno giorno e gli attentati notturni. Per essere “cool” non basta indossare una maglietta di un rapper di colore, secondo Gray bisogna rimanere se stessi, e forse è anche per questo che un certo tipo di cinematografia non riesce a scrollarsi di dosso il fantasma di se stessa.
di Alessio Sperati