Se è vero il vecchio adagio che non importa come purché se ne parli, Paul Verhoeven può definirsi soddisfatto del polverone di polemiche che é riuscito ad alzare con il suo Black Book. Tornato al cinema europeo dopo venti anni trascorsi all’ombra di Hollywood (RoboCop, Total Recall, Basic Instinct, Starship Troopers), presenta un film sulla persecuzione razziale e la resistenza olandese capace di far indignare tutte le parti chiamate in causa. Revisionista, traditore od antinazionalista che sia, Verhoeven è riuscito in poco tempo a mettersi contro tutti. Contro la comunità ebraica offesa per i toni della narrazione in alcuni momenti troppo “disinibiti”, contro gli ex-partigiani dipinti con tratti vilmente più umani e meno eroici, per finire con l’immagine di un paese che non esce esattamente a testa alta dalla situazione. In fin dei conti nulla di nuovo sotto il sole, né dal punto di vista intellettuale né da quello storico. Ma nonostante il suo auting contenutistico ( non dimentichiamo che in passato aveva già firmato la regia di Soldato d’Orange dai toni e dalle sfumature completamente diverse) e la volontà di ritornare ad una cinematografia di stampo europeo, Verhoeven non riesce o non vuole distaccarsi da una fattura di ripresa e di messa in scena tipicamente americana.
Ancora influenzato probabilmente dai grandi kolossal storici hollywoodiani dove, per quanto ardua sia la situazione sembra impossibile rinunciare ad un lustra ed intatta ambientazione, Verhoeven riproduce un ‘atmosfera fin troppo patinata inadatta ed inappropriata ad una distruzione di massa. Alla sua moderna Mata Hari (Carice van Houten) che affronta le attività spionistiche in tacchi alti, trucco perfetto e sguardo da ammaliatrice, fa corollario un insieme gaudente di truppe tedesche a cui si deve la presenza di cameratesche battute da osteria che sfalsano e destrutturano l’intera narrazione. Senza scavare troppo nella memoria cinematografica, Train de vie ( 1998) ci ha offerto una visione assolutamente più vitale, utilizzando un umorismo caustico ed delicato allo stesso tempo, dove il sorriso non offende ma osserva da un’altra angolazione un destino che appare inevitabile. Partendo dal presupposto che il senso dell’ironia non è materiale semplice da utilizzare perchè capace di ritorcesi contro con estrema facilità, non rimane che ricordare a Verhoeven come anche l’assolutamente hollywoodiano Spielberg ha accettato di “sporcare” le proprie immagini pur di rendere giustizia ad una narrazione che non può esulare dal dolore e dal terrore.
di Tiziana Morganti