Cavalcando nelle lande polverose del selvaggio West ci si imbatte in un pistolero dall’animo cupo e inquieto, distinto in piccoli ma fondamentali lineamenti, accompagnato dall’ immancabile sigaro tra le labbra. Questo affascinante personaggio è Blueberry, nato con la fisionomia di Jean Paul Belmondò e riportato sullo schermo da Vincent Cassel. Il fumetto si diffonde agli inizi degli anni Sessanta sulle pagine del settimanale Pilote grazie al lavoro di un abile sceneggiatore come Jean Michele Charlier, ispirato dalle pellicole di maestri quali Antony Mann e John Ford, e di Jean Giraud (Moebius) uno degli esponenti di punta della rivoluzionaria e futura rivista “Metal Hurlant”. L’autore non alieno ad esperienze cinematografiche (nelle vesti di production designer aveva partecipato a impegni importanti con registi del calibro di Ridley Scott e Luc Besson) si presenta con un biglietto da visita del tutto diverso dalle precedenti esperienze. La sua collaborazione con Jan Kounen (lo si ricordi nello sparatutto Dobermann) incide in profondità sullo sviluppo del racconto e sul destino dei personaggi. A questo proposito si potrebbe parlare di una coraggiosa seppur stonata alchimia tra lo “spaghetti western” (l’ammirazione del giovane regista per Sergio Leone è incommensurabile) e una specie di rievocazione mistico sensoriale, con il protagonista in lotta fra i demoni dell’inconscio e le ossessioni di un cuore di tenebra. In breve la storia racconta di un uomo (il cowboy appunto) impegnato a mantenere la tregua fra visi pallidi e indiani in una terra di nessuno, alla frontiera, assillato dai traumi di un passato mai rimosso.
Come già accadeva per illustri antenati (si pensi a Lo Spirito con la scure, meglio conosciuto come Zagor) anche Blueberry ha un passato, tra i pellerossa tra i quali tornerà in una sorta di trance catatonico nel finale. Il primo tempo è tutto un turbinio di immagini tipiche del filone americano: la diligenza in viaggio, il poveraccio defenestrato nella sala del dentista (o barbiere di turno) il classico saloon frequentato da una fauna variegata di maschere e caratteri, fino agli esploratori, impavidi cercatori affetti dalla febbre dell’oro mai del tutto debellata. Nel secondo tempo si entra in una dimensione altra, riconducibile ad un epilogo surreale che avrebbe certo deliziato gli spettatori curiosi degli anni Settanta, con intuizioni a metà fra il regno del misticismo e flash da realtà virtuale, come a voler far coesistere le creature di Max Ernst o H.R. Giger con le creazioni di William Gibson o Godfrey Reggio, ma che non farà certo gola né alle nuove generazioni, né tantomeno ai patiti del genere, i quali ad un certo punto si chiederanno il senso dell’intero progetto. Troppo poco forse per un talento ancora tutto da dimostrare e per un cast incredibile al quale prendono parte due giganti come Ernest Borgnine (il suo sceriffo sulla sedia a rotelle vale metà prezzo del biglietto) e Geoffrey Lewis per la prima volta davanti alla macchina da presa assieme alla figlia Juliette.
di Ilario Pieri