Vi sono film salvati dal finale, come nel caso di Match Point, ultima fatica di Woody Allen, dotato di una sequenza conclusiva che costringe a rivalutare l’intero progetto in positivo; ve ne sono altri come Boogeyman, con buone premesse e possibilità di intrattenimento, che dal finale vengono pressoché distrutti. Il film è ben diretto da Stephen Kay, prodotto da Sam Raimi e incentrato su argomenti allettanti quali paure infantili e primordiali, trauma della perdita di un genitore, elementi che se sviluppati possono dare buoni risultati, come in effetti parrebbe per quasi tutto il film. Al centro della storia c’è Tim (Barry Watson) con tutte le sue paure. Da piccolo era solito ascoltare le favole horror di suo padre prima di addormentarsi, fino al giorno in cui il tanto nominato “Uomo Nero” esce fuori dall’armadio e se lo porta via di fronte agli occhi ghiacciati del bambino.
Da allora non basta più accendere la luce per far svanire il terrore: ogni porta socchiusa, ogni armadio nasconde per l’ormai trentenne Tim una oscura minaccia.Alla morte della madre il ragazzo è comunque costretto a rientrare in quella casa in stile Psyco, deciso ad affrontare una volta per tutte le sue paure. È proprio quella casa a parlare abilmente per tutto lo svolgersi della trama con i suoi cigolii, a muoversi con tutto ciò che contiene, a nascondere, ad aggredire. Poi arriva l’ Uomo Nero e l’infanzia violata di un bambino si trasforma in un giocattolo per professionisti del “digital compositing” e la magia finisce, le luci del cinema si accendono e noi rimpiangiamo quello che avrebbe potuto essere un buon horror. Che un regista di genere non sia abbastanza furbo da capire quanto la paura del mostro spaventi più del mostro stesso è alquanto ridicolo…
di Alessio Sperati