Don Johnston (Bill Murray) è un ex commerciante di computer ormai in pensione. Con i pc si è fatto una buona posizione sociale, eppure non ne ha mai voluto uno per sé. Così come tra le tante donne che ha conosciuto nella sua vita, nessuna ha trovato uno spazio permanente: l’ultima, Sherry (Julie Delpy), lo molla all’inizio del film. E Don rimane solo, a sorseggiare un Moet & Chandon nel suo salotto vuoto e silenzioso. Abbandono. Ma ecco la lettera, un messaggio battuto a macchina su carta di un colore rosa pastello nel quale una misteriosa ex fiamma di vent’anni prima gli rivela di essere padre e che suo figlio, ora diciannovenne, si è messo in testa di volerlo conoscere. E allora tutto prende un’altra piega, inattesa, spiazzante. Don non può attendere che sia lui a venire e chiede aiuto al vicino di casa Winston (Jeffrey Wright) non solo per la sua mania investigativa, ma anche perché Winston è tutto ciò che non è lui: padre di cinque figli e marito di una perfetta donna di casa. Non passa molto tempo affinché Winston, come Kirsten Dunst in Elizabethtown, abbia approntato tutto per il viaggio di Don in giro per l’America, dalle mappe al cd musicale. Inizia così la ricerca della misteriosa donna il cui unico indizio è una predilezione per il colore rosa.
Le ex di Don Johnston, in modi diversi e a volte bizzarri, si sono rifatte una vita: Laura (Sharon Stone) vive con la figlia Lolita (Alexis Dziena), che gira nuda per casa, dopo che il marito corridore nel NASCAR è rimasto ucciso in un incidente. Dora (Frances Conroy) vende case prefabbricate insieme al marito Ron (Christopher McDonald): la donna sembra in qualche modo felice di rivederlo, ma alla fatidica domanda “Avete figli?” il clima si raggela. Carmen (Jessica Lange) è diventata una luminare nel “comunicare con gli animali” dopo il decesso della creatura che sembra aver più amato al mondo: il cane “Winston”. Iniziano i déjà-vu. Alla terza visita dunque i flussi di coscienza prendono sostanza, i pensieri di Don si scompongono e ricompongono e la realtà esterna sembra sempre più una sua personalissima proiezione. Il suo passato rimette in discussione la realtà del presente. Disgregandola. Rimangono solo due visite da fare: una è Penny (una irriconoscibile Tilda Swinton con lunghi capelli neri) che non lo accoglie di buon grado. L’ultima è al cimitero, deceduta, la più bella di tutte a sentir lui. Ma nel viaggio di Don non ci sono solo le donne del suo passato reale, ci sono anche quelle del suo inconscio, rappresentate da figure di contorno, bellissime ragazze che incontra lungo la strada e che rappresentano non soltanto belle donne (Alexis Dziena, Chloe Sevigny e Pell James), ma anche in qualche modo il suo ideale di donna. Riflessione.
Tornando a casa Don Johnston vede oggetti rosa e potenziali figli ovunque si posi il suo sguardo. ll suo incrollabile baluardo di certezze solipsistiche è venuto meno, così come il suo mondo. Broken Flowers è «Una storia sulle occasioni perdute – afferma il suo creatore Jim Jarmusch, già autore di altre perle di cinema come Ghost Dog, Dead Man e Daunbailò – sull’amore che non abbiamo dato e su chi abbiamo fatto soffrire con i nostri abbandoni, soprattutto sulla solitudine di chi alla fine è sfuggito ai sentimenti e alle responsabilità, ma anche sulle possibilità che la vita riserva ogni giorno». Mentre scorrono le immagini ci rendiamo conto di quanto sia stata felice la scelta di Bill Murray, sempre più artista del silenzio, professionista del minimalismo interpretativo, poeta dello sguardo nel vuoto. A lui il peso di rappresentare visivamente l’assunto di James Hillman sull’oggetto d’amore che diviene “…Una miccia che dà fuoco all’immaginazione e fa di essa una cosa appassionatamente reale, fisica, viva e desiderabile”. E così Murray esprime fortemente e professionalmente quel diverbio tra ciò che Don desidera e ciò che dovrebbe desiderare. Ancora più adatto al ruolo perché Murray nella vita reale è tutto l’opposto: ha una famiglia di sei figli – uno dei quali fa una veloce comparsa al termine del film – e lui stesso è il quinto di nove figli. Eppure anche noi critici abbiamo i nostri desideri, e in un film del genere siamo spinti a rimpiangere la penna di Charlie Kaufman o l’onirismo sfacciato di David Linch. Perché Jarmusch si limita a mettere alla prova il suo artista di punta, a testarlo su territori diversi e pericolosi e per mettere in pratica la sua alienazione si limita a strumentalizzare i suoi silenzi. E ancora una volta Bill Murray rivela di essere rimasto sempre lo stesso, dopo vent’anni, ancora acchiappafantasmi…quelli psicologici.
di Alessio Sperati