Ermanno Olmi si congeda dal cinema narrativo. Lo fa con la naturalezza e la leggerezza di un uomo consapevole di non voler più rimandare determinate necessità. Da oggi in poi il suo interesse artistico ed umano sarà rivolto esclusivamente nei confronti del documentario per soddisfare il bisogno di ritrovarsi tra la gente e la vita concreta. Cento chiodi, visto da questo punto di vista, può essere considerato a buon diritto un testamento artistico, un’opera omnia attraverso la quale Olmi ha deciso di donare convinzioni, pensieri e riflessioni su tutti quei “credo” che per secoli hanno imbrigliato l’essere umano, negando la sua libertà. Ci troviamo di fronte ad un film denso, che alla complessità della tematica contrappone una essenzialità della regia dal forte impatto emozionale. Ad essere messo sotto accusa il dogma, di qualsiasi natura esso sia, religioso e culturale, per aver impersonificato l’antirivoluzione, la regola che l’uomo ha sottoscritto ciecamente e dietro il quale si è nascosto per compiere le sue brutalità. Cento chiodi è un opera che va meditata e assaporata a poco a poco, dando il giusto tempo all’elaborazione del pensiero e al sentire istintivo di codificare e scoprire messaggi nascosti dietro un’ immagine, una parola o un semplice gesto. Dalla convinzione che le religioni non hanno mai salvato il mondo (come dargli torto visto solo gli sviluppi di questi ultimi anni) all’immagine in qualche modo bizzarramente artistica di ciò che siamo soliti chiamare cultura inchiodata e immobilizzata a terra, sembra che Olmi diriga i suoi colpi verso il sapere e la conoscenza in senso universale.
Ma basta poco per comprendere come questo attacco riguardi esclusivamente l’erudizione, il concetto che si fa servo di troppi padroni e la cieca convinzione che induce l’uomo a perdersi nei suoi meandri fittizzi ed ipotetici. Il maestro impone una riflessione sulla diversità tra discipliana e educazione. La prima prevede l’assoggettamento alla cultura, il rispetto delle regole, la seconda rappresenta il rispetto dell’uomo. Le accuse in questo senso arrivano anche per la Chiesa, la dottrina e le strutture gerachiche che la compongono. Un processo dal quale viene di base esclusa la fede, un sentimento naturale, non disciplinato, che rintraccia le sue origini nell’antichità stessa dell’uomo. Ma quando questa viene presa, utilizzata e disciplinata dal dogma perde la sua naturalezza e diviene attaccabile. Se la religione non pone come sua centralità la libertà dell’uomo, se l’uomo stesso dimentica l’importanza dei propri simili, allora si cade nel tranello di una religione impositiva e padrona. Al riguardo Olmi da vita ad un dialogo intenso e controverso proprio tra il Dogma e la verità universale dell’uomo. Lo fa attraverso il volto di un “cristo schiodato” approdato sulle rive del Pò (Raz Degan), alla ricerca di una vita e di una naturalezza che sembra aver perso di vista e di cui avverte l’esigenza e il bisogno. L’immagine quotidiana di una vita popolare, il ritmo lento del risalire del fiume ed una immobilità apparente che induce alla conoscenza di se e degli altri, impongono un andamento diverso alla narrazione. Dalla contestazione si passa alla contemplazione, alla scoperta o meglio alla riscoperta. Le note di una vecchia canzone da balera (Non ti scordar di me) si trasformano in una melodia popolare che invita alla reminiscenza di una semplicità un po’ ingenua. Il tutto per poter cantare all’uomo l’incredibile ricchezza della sua libertà di scelta.
di Tiziana Morganti