Se già non è facile realizzare un film di spionaggio veramente convincente, il compito diventa più arduo se si vuole incastrare alla spy story anche una love story altrettanto convincente. Il tentativo di Marek Kanievska, il regista di questo film, si è dimostrato comunque tale. Ispirato alla vita della spia inglese Kim Philby che in piena Guerra Fredda passò al servizio del KGB sovietico abbandonando moglie e figli ignari delle sue attività, Codice Homer (il titolo originale è A Different Loyalty) si mantiene continuamente in bilico tra azione e romanticismo, tra film politico e struggente melodramma, senza però che nessuno di questi due poli venga approfondito seriamente. Al centro di tutto, come suggerisce il sottotitolo del film, c’è la riflessione sul concetto di fedeltà e di come esso cambi a seconda che tocchi l’universo maschile o quello femminile: per il protagonista (Rupert Everett) la fedeltà è fino alla fine quella all’ideologia politica, mentre per sua moglie (Sharon Stone), al contrario, essa è rivolta al valore della famiglia che va in ogni caso salvaguardata. La storia gioca e si costruisce su questa antinomia amore-dovere, in cui è proprio la fedeltà ai propri ideali a frapporsi tra i due e ad essere sentita come un dovere per il quale rischiare tutto. A incarnare queste opposizioni è una coppia di attori di solito estremamente versatili ma in queste vesti del tutto inadeguati: Rupert Everett infatti, da bravo attore inglese di teatro qual è, regala al personaggio soltanto la sua innegabile eleganza, ma non certo il carisma che dovrebbe avere un agente segreto; quanto alla Stone, il ruolo di moglie degli anni Sessanta romantica e devota non le si addice particolarmente. Per un film tratto dalla storia vera di una delle più famose e intriganti spie inglesi del Novecento, ci si aspettava qualcosa di più o che almeno non fosse stato già visto e rivisto e, mai come questa volta, si rimpiange il buon vecchio 007.
di Valentina Domenici