Remake del film argentino Nove reginedi Fabián Bielinsky, uscito in Italia nel maggio del 2003, Criminal risente e della pellicola originale e del tocco del grande Steven Soderbergh. Il regista esordiente Gregory Jacobs, infatti, è stato ed è ancora suo assistente (in Traffic, Ocean’s Eleven, ma anche nell’episodio di Erose in Ocean’s Twelve), ed evidentemente non è facile scrollarsi di dosso un tale mentore. Ambientato in sole ventiquattro ore in una Los Angeles ormai divisa a metà tra un West Side ricchissimo, dove passano solamente macchine di lusso, tra alberghi a cinque stelle e negozi di alta moda e un East Side in cui regnano i Messicani che sono riusciti a superare la frontiera e vivono in allegria tra tacos, truffe e macchine sgangherate. Il tema centrale dell’opera è, a prima vista, una considerazione banale, ovvero che le apparenze ingannano. Dunque non solo gli Spagnoli immigrati rubano, ma anche gli americani bianchi, che nascondono i propri traffici dietro un bel vestito e una “ventiquattrore”. Richard Gaddis/John C. Reilly rappresenta il piccolo opportunista che crede di poter manipolare gli altri e di trovare sempre la buona occasione per un illecito affare, ma che ha bisogno di sodàli per non affondare totalmente nell’illegalità. Il giovane Rodrigo/Diego Luna sembra il classico rubagalline da sfruttare a proprio piacimento.
Le sequenze iniziali hanno il sapore di una pièce di David Mamet, i due traffichini si alleano per scippare borsette o per intascare soldi da nonnine indifese, poi il ‘climax’ va presto crescendo e ai campi medi della macchina da presa si alternano primi piani e soggettive al cardiopalma. Una visualità immediata, scattante, che ricorda alcuni elementi tipici dello Stephen Frears americano di Eroe per caso e di Dirty Pretty Things. Beverly Hills brilla, ma dietro le luci del Biltmore Hotel, c’è una faida familiare, una sceneggiata da settecentocinquantamila dollari, gli ultimi barlumi di un post-yuppismo sbracato senza freni, incarnato nella figura dell’europeo senza scrupoli (Peter Mullan), che può a piacimento comprare le cose e le persone. Non tanto paradossalmente, dove il danaro è l’asse portante dell’intero script, il film si avvita su un gioco attoriale, dove la bravura di ogni singolo interprete diviene essenziale e dove primeggiano John C. Reilly e Maggie Gyllenhaal, vestita e incattivita come in un noir anni Quaranta, nemmeno fosse una novella Barbara Stanwyck. Strano a dirsi, però, il finale è meno imprevedibile di quanto fosse nell’intenzione degli sceneggiatori: quasi te lo aspetti. Inoltre come spiegare una sottilissima noia che può arrivare da un lungometraggio di soli ottantasei minuti?
di Vincenzo Mazzaccaro