Finalmente tempo di tenerezza per questa stagione estiva. Tra un Tom Cruise impegnato a combattere alieni intenzionati a conquistare il nostro pianeta ed il ritorno dell’eroe mascherato di Gotham City, si inserisce una pellicola scozzese che, nonostante sia stata presentata al Festival di Cannes, al Toronto International Film Festival, al Los Angeles Film Festival ed al Tribeca, rischierà con grande facilità di passare inosservata tra tanti combattimenti del terzo tipo ed una ritrovata atmosfera fumettistica. Certo Dear Frankie di Shona Auerbach potrebbe essere accusato di un eccessivo sentimentalismo, adatto ad un pubblico incapace di assistere ad una visione senza il sostegno ed il supporto di una quantità industriale di clinex, ma è pur vero che la vicenda di Frankie, bambino sordomuto che scrive ad un padre imbarcato senza conoscerne la vera identità e curarsi della sua effettiva esistenza, è stata dotata di una particolare onestà che libera l’intera storia di pesanti atmosfere ricattatorie. A rendere ancora più tangibile la vicenda si aggiunge il ruolo di una madre, Lizzie (Emily Mortimer), divisa tra la consapevolezza di dover rivelare la verità ed il desiderio di regalare un’ultima illusione al figlio, e l’arrivo dello sconosciuto (Gerry Butler) che, con il suo volto capace di palesare rughe e carattere a sufficienza, incarna il sogno paterno di Frankie.
Per finire, ecco alle loro spalle lo scenario sporco, plumbeo di una Glasgow certo non da cartolina ma che rappresenta perfettamente la condizione precaria e di passaggio della classe operaia scozzese. Dunque, in fin dei conti, un film dalle atmosfere ben dosate all’interno del quale il sentimento non si trasforma in sentimentalismo e l’aspetto sociale è mostrato solo attraverso uno sguardo in apparenza distratto e frettoloso, tanto per appurare una realtà senza attribuire ad essa un importanza narrativa che non ha. Un debutto promettente per la regista Shona Auerbach, dedicatasi fino a questo momento alla fotografia ed agli spot pubblicitari ed autrice di un solo corto, Seven. Un’opera prima che certo porta il segno dell’inesperienza ma che è riuscita comunque a mantenere una sua dignità grazie a delle scelte ben precise, come avere il coraggio di portare sullo schermo una vicenda a suo modo ordinaria e quotidiana, arricchirla con l’elemento dell’handicap della sordità quasi a renderla più sensazionale per poi utilizzare una tecnica di ripresa così pulita e priva di qualsiasi orpello visivo ed emozionale non solo ridimensionando il tutto ma attribuendo alla Auerbach dei meriti autoriali e stilistici, caratteristiche che sicuramente le garantiranno una futura attenzione.
di Tiziana Morganti