Dopo aver narrato con delicatezza e passione l’evolversi di un amore impossibile (L’amante, 1991) ed essersi lasciato sedurre dall’imponenza fisica e geografica dell’Himalaya (Sette anni in Tibet, 1997), Jean-Jacques Annaud torna alla sua prima giovanile ossessione per le ambientazioni selvagge, grazie alla vicenda di Due fratelli. L’attrazione e l’interesse naturale provati nei confronti dell’Africa e del comportamento animale che lo avevano già condotto verso l’avventura di L’orso (1988), lo hanno spinto a raccogliere la stimolante sfida di rappresentare e fotografare, come un muto spettatore, lo sfaccettato ed affascinante sguardo della tigre. Attraverso la costruzione di una vicenda dai semplici e chiari riferimenti narrativi (due cuccioli di tigre vengono catturati e separati fino a quando, dopo un anno, si ritrovano faccia a faccia all’interno di una arena per i combattimenti) capaci di dialogare in modo universale con un pubblico piuttosto eterogeneo, Annaud offre uno spettacolo visivo (grazie all’utilizzo delle telecamere digitali con le quali si impadronisce di ogni singola espressione felina), a dir poco sorprendente. Fotografia, colore ed ambientazioni asiatiche (la Cambogia) a cui si unisce la naturale ed imperiosa fluidità di uno tra gli animali più seduttivi, dimostrano come sia possibile costruire e gestire un film che, pur se a prima vista può apparire concettualmente ed attorialmente povero (l’apporto umano è del tutto irrisorio), è in grado di emozionare e colpire irrimediabilmente l’immaginazione.
Certo è che se si cercano le complicate trame della passione indocinese narrata ne L’amante, la capacità narrativa dimostrata in Sette anni in Tibeto l’oscuro e misterioso intrigo de Il nome della rosa si potrebbe rischiare di rimanere seriamente delusi. Il fatto è che Due fratelli, pur rifacendosi ad alcuni elementi della tradizione cinematografica di Annaud, non riesce a somigliare a nessuno dei suoi lavori precedenti.. Trascorsi sedici anni dal suo primo incontro cinematografico con un animale non certo docile e semplice da filmare come l’orso, il regista francese muta visuale abbassandosi verso lo sguardo intenso e partecipe di una tigre a cui viene affidato il compito non di riprodurre ma di creare e provare naturalmente una emozione. Kumal e Sangha, i due protagonisti, si muovono con sicurezza e morbidezza mettendo a disposizione delle telecamere quegli occhi capaci di gioire, disperarsi e piangere. Quelle pupille fiammeggianti di orgoglio che sole riescono ad amplificare una commozione, offrendo ad Annaud la possibilità di realizzare un’opera certo non riducibile a mero documentario naturalistico e ben più coinvolgente di alcune fin troppo strutturate, sterili e poco credibili vicende narrate dal cinema.
di Tiziana Morganti