Il Rinascimento raccontato da un buffone di corte: dai suoi occhi più che dalle sue parole. Perché le parole possono troppo sintetizzare, a volte ingannano, spesso sfiorano il rischio didascalico, pericolosamente in un film storico. Ma che accade se più delle parole a contare sono i quadri d’ambiente, i volti e i gesti? Florestano Vancini a questo ha tentato di rispondere nel suo …E ridendo l’uccise (interpretato quasi solo da giovani attori, girato tra Tivoli e i boschi jugoslavi, con le musiche di Morricone e la fotografia di Maurizio Calvesi) che ci fa indietreggiare sino al ‘500 ferrarese, sin dentro la corte estense, all’indomani della morte di Ercole I e in piena faida tra fratelli ma anche fuori dalla corte, di là del sontuoso Palazzo Ducale e tra la plebe. Insomma lì dove batteva l’altro cuore dell’epoca: quello fetido e misero che soffocava un po’ ogni giorno appena a un passo dal cuore fulgido delle corti rinascimentali. Vancini, che avrà ottanta anni nel 2006, ce ne ha messi venti per tradurre in film un’idea accarezzata a lungo e venticinque per tornare a quel cinema abbandonato ai tempi de La baraonda e al quale pensava di avere detto addio una volta per tutte «Perché ero esausto, non ne potevo più di inseguire produttori che avevano paura di produrre i miei film e mi ero rassegnato all’idea di non girarne più»..
«D’altra parte – continua il regista – anche questo film, dopo aver trovato in Renata Ranieri e Ugo Tucci dei produttori coraggiosi, è stato rifiutato per ben due volte dalla Commissione che avrebbe dovuto riconoscerne l’interesse culturale nazionale. E credo che sarà davvero il mio ultimo film». Sarà per questo che lo ha voluto fortissimamente, dopo averlo pensato per un quarto di secolo. O sarà che lui, che la sua Ferrara se l’è sempre portata dietro, era lì che alla fine voleva tornare: per un omaggio o foss’anche per un addio. Così questo film celebra un doppio ritorno, al cinema e alla sua città, ma celebra anche un’idea. Accanita. Un’idea a lui sempre cara: il sogno di un cinema che sa guardare oltre il proprio naso. O, che è la stessa cosa, di un presente che sa leggere nel proprio passato e trattarlo per ciò che vale: «I francesi, gli inglesi per parlare solo dei nostri vicini di casa sanno guardare alla loro storia, sanno costruire un cinema celebrando un passato. Noi no, il nostro attuale cinema è tutto concentrato sul presente, chiuso nel racconto di rapporti personali, chiuso dentro le case, incapace di guardarsi alle spalle. Mentre io vorrei che lo spettatore di oggi sposti la propria attenzione anche su qualcosa che non lo riguarda da vicino, che non ha solo a che fare con la propria quotidianità».
E così il veterano Vancini combatte la sua battaglia. Così trovando il modo di narrarci non solo come un fratello era capace di far cavare gli occhi a un altro fratello, non solo come brillava la corte estense e il suo duca anche quando dal suo balcone assisteva compiaciuto alla decapitazione e poi allo squartamento dei condannati, a colpi di mannaia, pezzo per pezzo, con impeccabile metodo, non solo come tutto questo ingoiava e registrava lo sguardo di illuminati uomini di corte come Ludovico Ariosto ma anche come il popolo guardava, come subiva le prepotenze dei signori, come viveva o meglio come sopravviveva. Senza troppo inventare e attingendo da una serie di diari pubblicati nel secondo Ottocento che rimandano dettagli di spicciola cronaca della vita quotidiana dei sudditi, mentre da un libro del 1932 di Riccardo Bacchelli, La congiura di Don Giulio D’Este, ha tratto un abbozzo della storia, e da un sonetto di Antonio Cammelli, detto “il Pistoia”, ha tirato fuori lo sguardo che guida, la figura (questa davvero inventata) del buffone di corte, sempre in bilico tra il dentro e il fuori, i potenti e i miseri, coscienza critica e autocoscienza dei tempi, che qui è ben interpretato da Manlio Dovì e che al film dà il titolo, la chiusa e il senso ultimo. Disperato ma non solo. Perché anche dall’infamia nascono splendori, così come è vero il contrario. E la morte è un passaggio, come il passato che bisogna sfogliare continuamente.
di Silvia Di Paola