Il film a sorpresa di Venezia 61 è Binjip del regista Kim Ki-duk, autore di opere estreme e insieme delicate quali L’isola e Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera. Due ragazzi che incrociano casualmente le loro esistenze travagliate, decidono di non abbandonarsi più; ma comunicano solo attraverso i gesti e gli sguardi, non pronunciano alcuna parola. È il ritratto di un’intera generazione, quello che offre il regista, di un popolo incapace di instaurare relazioni interpersonali e di abbandonarsi ai sentimenti. La difficoltà di comunicare dei personaggi è simboleggiata dalla loro tendenza al mutismo, a chiudersi a riccio in un ostinato silenzio che in realtà è strumento di difesa dalle incomprensioni e dai tormenti del vivere quotidiano. Tutto il film è attraversato da una comicità lieve, gentile, che ricorda esplicitamente quella surreale e pregna di significato dei vari Buster Keaton, Charlie Chaplin o Jacques Tati; essa però si arricchisce di elementi propri del modo di vivere e relazionarsi degli orientali, per cui assume caratteristiche personali e originali. Kim Ki-duk descrive la vicenda con un tocco leggero, molto raffinato: riduce al minimo i movimenti di macchina e si sofferma a lungo sui primi piani degli attori per far sì che essi tirino fuori gli aspetti più sensibili e interiori insiti nei propri personaggi. Inoltre egli presta grande attenzione a tutti quei dettagli che evidenziano la verità dei caratteri e degli ambienti, perennemente immersi in luci abbaglianti, apparentemente freddi ma in realtà ricchi di calore. Un racconto intimista ma dal respiro universale, un viaggio magico alla scoperta dei misteriosi risvolti dei sentimenti umani, un film che si fa gustare per la sua capacità di affrontare temi complessi attraverso una concezione narrativa di grande semplicità.
di Simone Carletti