Per sua stessa ammissione Amos Gitai è un architetto votato non alle costruzioni monumentali, ma alla cura dei particolari dietro i quali si nascondono significati dal respiro più ampio. In particolare con Free Zone (film presentato al Festival di Cannes 2005) il regista, da sempre impegnato a fotografare la complicata condizione israeliano-palestinese, mette in pratica questa sua attitudine naturale per costruire una vicenda che esula profondamente da qualsiasi archetipo di guerra e distruzione, per spostare l’attenzione su di un emisfero femminile che si trasforma in possibilità d’incontro e di rinascita. Distogliendo l’attenzione da una ambientazione esterna, Gitai sceglie di immortalare l’incompiutezza, la fragilità e l’introspezione umana esaltata dalla claustrofobica circoscrizione dello spazio. Nei primi dieci minuti del film in cui la macchina da presa si sofferma quasi con inopportuna intensità sul volto di Natalie Portman, devastato da un alternarsi di emozioni, si determina l’atmosfera e la cifra stilistica dell’intero film. Da quei momenti si comprende come estraneo alla vicenda sarà qualsiasi riferimento visivo alle distruzioni di massa. Il sensazionalismo da telegiornale viene deposto per lasciare spazio ad una quotidianità che, nonostante tutto, continua il suo percorso. In un certo senso ci troviamo di fronte ad una vicenda che, al di la delle lacrime iniziali, racchiude in se un ottimismo ed una speranza capace di sopravvivere in un non luogo.
E proprio ritornando al simbolismo di Gitai, Free Zone è una striscia di terra tra la Siria, la Giordania, l’Iraq e l’Arabia Saudita dove è possibile qualsiasi libero commercio senza dazi doganali, ma è anche rappresentazione di quell’isola che non c’è, all’interno della quale è possibile ed ipotizzabile una commistione etnica e linguistica. Allo stesso modo la macchina, all’interno della quale la Portman e Hana Laszlo (premiata con la Palma d’oro come miglior attrice) compiono il loro viaggio verso una destinazione non ben definita e comunque sempre posticipata, è la conquista di una terra di nessuno in cui è possibile l’incontro tra la realtà americana, quella israeliana e palestinese. Dalle ultime immagini si evince come non sia assolutamente importante la meta da raggiungere, ma il viaggio, la condivisione dell’avventura, la scoperta delle differenze e delle similitudini capace di creare le basi per un dialogo. Alle sue donne, al loro senso pratico ed alla loro innata incoerenza Amos Gitai affida il compito di rappresentare una possibilità d’incontro assolutamente necessaria. Forse a prima vista la vicenda potrebbe essere considerata superficiale ed inconcludente rispetto alla drammaticità del momento storico, ma non bisogna dare troppo per scontato immagini che appaiono tali. Dietro l’apparire si nasconde l’essenza di una realtà, di un mondo quotidiano che potrebbe comincire a confrontarsi attraverso una rumorosa e femminile dialettica.
di Tiziana Morganti