Un viaggio epico attraverso l’Africa, affrontando pericoli e vessazioni dai nuovi trafficanti di schiavi inseguendo il sogno di una vita migliore in Europa. Lo racconta con il suo ineguagliabile stile il regista-poeta Matteo Garrone, nel film Io Capitano (già in oltre 200 sale fortunatamente non doppiato), reduce dai premi giustamente conquistati al festival del cinema di Venezia. Una sorta di controcampo a quello che i media ci hanno abituati a vedere su questi sciagurati viaggi della speranza che mietono migliaia di vittime. Un film bellissimo, doloroso, imperdibile per capire cosa davvero accade a questi nostri sfortunati fratelli. Un road movie di formazione, un’odissea omerica che, tra il realistico e il fiabesco, fa penetrare lo spettatore nell’anima dei due sedicenni senegalesi che, di nascosto dai familiari, affrontano le insidie del deserto per potersi imbarcare alla volta della “terra promessa”.
Per realizzare il film – spiega Garrone – siamo partiti dalle testimonianze vere di chi ha vissuto questa odissea contemporanea e abbiamo deciso di mettere la macchina da presa dal loro punto di vista, in una sorta di controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere dalla nostra angolazione occidentale, nel tentativo di dar voce, finalmente, a chi di solito non ce l’ha”. Ad aiutarlo nella ricostruzione il quarantenne Kouassi Mamadou che ha vissuto una quindicina di anni fa questa esperienza insieme al cugino. “Sapevamo i rischi mortali che correvamo – ricorda -, spero che i giovani africani che vedranno il film riflettano su quante sofferenze li aspettano durante quel viaggio”.
Garrone non entra nel merito dei risvolti politici legati a questa intollerabile mattanza, vuole parlare solo del film per il quale ha ingaggiato come protagonisti i bravissimi Seydou Sarr e Moustapha Fall, ricostruendo le tappe della loro odissea tra il deserto del Marocco, le città di Casablanca e Marsiglia. Racconta senza pietismo tutti i loro sentimenti, l’euforia, il dolore. “Il 70% di questi migranti africani non fuggono da guerre, sono giovani pronti a scappare da una povertà dignitosa per realizzare un sogno – continua il regista -. Hanno casa, scuole, tv, telefonini, famiglie che li mettono in guardia dal pericolo di perdere la vita nell’affrontare questa folle impresa. Ma loro, increduli, lavorano di nascosto per pagarsi il viaggio, non immaginando fino a che punto sarà terrificante ciò che li aspetta. C’è una profonda ingiustizia nei loro confronti”.
Cosa aspetta dunque l’ Europa a creare canali di ingresso sicuri per contrastare i mercanti di schiavi che si arricchiscono a manbassa da queste strazianti, disumane vicende.