Un film sul potere patriarcale nel mondo del lavoro che continua a generare soprusi. Lo racconta senza clamori ma con ferma determinazione Marco Tullio Giordana nel film Nome di donna, scritto con Cristiana Mainardi e interpretato da Cristiana Capotondi, Valerio Binasco, Bebo Storti, Adriana Asti, Michela Cescon, Stefano Scandaletti, che l’8 marzo arriverà su 200 schermi con Videa.
La storia, non ispirata a fatti di cronaca, è stata scritta tre anni fa quando il problema non era ancora in primo piano nei media mondiali e racconta qualcosa di più sottile di un sopruso, della violazione della propria intimità. Ambientata in un piccolo paese rurale della Lombardia dove Nina, giovane e determinata ragazza madre di Milano, trova finalmente lavoro in una lussuosa casa di riposo gestita da ecclesiastici, che però cela torbidi retroscena. Respinte le avances del viscido direttore sanitario la donna dovrà fare i conti con l’omertà dei vertici e delle colleghe, ritrovandosi ad affrontare in totale solitudine le conseguenze della sua scomoda denuncia.
Mainardi racconta la quotidianità, i vari modi di relazionarsi con gli altri, affrontando il tema delle molestie sessuali non in modo veemente ma indagando un personaggio femminile che non si arrende, e le altre donne al suo fianco, senza giudicarle ma mostrandone tutte le sfumature. Una storia di fantasia che vuole dare una speranza, anche se la breve ma esaustiva scena scelta da Giordana per chiudere il film (alla Dino Risi) lascia capire che una vittoria è solo l’inizio di una lunga, tortuosa strada che si spera porti al più presto a un radicale cambiamento culturale, di mentalità.
“Ho voluto uscire dalle ideologie, dai ragionamenti teorici per entrare nella vita di tutti i giorni – spiega l’autrice -, nelle storie di una quotidianità femminile straordinariamente complessa, figli di questo tempo in cui la fragilità economica e la precarietà del lavoro hanno alzato il livello del bisogno e abbassato quello delle pretese, dei diritti”.
Pur non essendosi mai scontrata con una realtà del genere, Cristiana Capotondi l’ha sentita spesso raccontare, anche in maniera coinvolgente. “Anche l’abuso psicologico è terribile, bisogna bonificare il luogo di lavoro- sottolinea l’attrice, presentando il film a Roma -. Si devono ancora segnare i perimetri dell’abuso, si sta iniziando ora, è bene che si sia fatta luce sugli effetti collaterali del potere. Si corre però il rischio della sovraesposizione mediatica, dobbiamo concentrarci sul processo culturale e non solo sul ‘mostro’, la soddisfazione voyeuristica si risolve spesso in un nulla di fatto”.
“Mai dare per scontato che quella è la regola del gioco – consiglia Michela Cescon – ma sentire l’orgoglio di non essere il ‘bocconcino’ di nessuno”.
A far cadere l’omertà, sostiene Giordana, saranno gli audaci: “Contro un patriarcato non ancora sconfitto ci vuole un ribaltone culturale, è un problema di potere che riguarda tutti, i primi a dare spallate si faranno male, ma è un male necessario”.