Hans o dell’esercizio privato. Perché se Hans non può non rimandare agli studi di Freud sull’isteria, qui più semplicemente rimanda e si impantana sugli esercizi intorno alla ricerca su un linguaggio cinematografico che si vorrebbe capace di far dire tutto all’immagine e quasi nulla alle parole. Più che un’idea di cinema (rispettabilissima, tra l’altro) un’utopia per il giovane Louis Nero che, nel tentativo di raggiungere quella meta, mixando psicoanalisi ma d’accatto, teatro dell’assurdo, spicciolo sociologismo catastrofista, lavora freneticamente con la macchina. E va bene, persino ammirevole risulta la sua capacità di insinuarsi con l’occhio digitale in ogni dove, di stare addosso agli attori, di selezionare, sovrappore, sfumare. Ma perché tutto ciò non si trasformi in uno sterile esercizio quasi privato, ripiegato su se stesso, indifferente al dialogo con lo spettatore ma neppure travolgentemente sperimentale, bisogna saper imporsi delle regole, dei metri di misura e bisogna lavorare su materiale umano di primissima mano, mentre i poveri attori (incluso il Franco Nero nei due ruoli di giudice e barbone), fanno ciò che possono tra impervi monologhi e massacranti primi piani ma, appunto, ciò che possono non è abbastanza.
Peccato perché il secondo lungometraggio di Nero, Pianosequenza, secondo capitolo di questa trilogia cominciata con Golem e finita, appunto, con Hans, aveva fatto ben sperare in questo autore che con una camera digitale per due ore senza stacchi di montaggio ci aveva rimandato un’inedita Torino notturna reale ma pronta a sprofondare nel sogno (o nell’incubo). Lì c’era una folla di curiosi personaggi, tragici e divertenti insieme, che blateravano quasi su tutto, qui i personaggi non blaterano ma declamano, i temi del razzismo, della dittatura, dell’universo ridotto a pattumiera si fanno invasivi, i personaggi più che essere poveracci qualunque, rimandano a nomi importanti della cultura occidentale e lo stesso Hans rinvia al suo predecessore, anche se qui è un giovane che lavora in un’azienda di smaltimento dei rifiuti, arriva da un’infanzia tremenda e ha un tremendo futuro di follia e di violenza davanti, ciò che il regista vorrebbe come perfetto antieroe, politicamente scorrettissimo e torbido, razzista che denuncia il razzismo, violento che si abbandona alla violenza. Potevamo, insomma, aspettarci da questo film (presentato nella sezione “Venice Screenings” della 62ma Mostra) almeno un altro gioco provocatorio, invece ci siamo trovati di fronte a un gioco personale che spreca talento in un’operazione azzardata ma non abbastanza d’azzardo, cui lo schematismo toglie respiro, l’eccesso di rappresentazione sottrae anima e la mancanza di umiltà mina anche il salvabile.
di Silvia Di Paola