È qualche anno ormai che il cinema americano saccheggia scorci paesaggistici dalla Repubblica Ceca, restituendo una pubblicità, nel migliore dei casi, inesistente. O peggio, in film come Eurotrip o Hostel, che di Eurotrip ne è in qualche modo la versione gore, ci facciamo un’idea di Bratislava e dintorni che più terrificante non si può: povertà, illegalità, prostituzione. E i Cechi che fanno? Ringraziano la produzione di Hostel per aver offerto la possibilità di recitare nella loro lingua madre. Inverosimile. Il racconto, scritto e diretto dal regista di Cabin Fever Eli Roth, parte da Amsterdam dove tre ragazzi, due americani e un islandese, si divertono con tutto ciò che la città mette loro a disposizione. Poi, su invito di un ben informato coetaneo, si catapultano con nuove prospettive di conquista nell’Europa dell’Est dove pare che le ragazze siano particolarmente disponibili con i turisti. In effetti lo sono un po’ troppo. Una volta arrivati nei pressi di Bratislava, Paxton, Josh e Oli vengono adescati da Natalya e Svetlana, due bellezze da calendario e, distratti dalle gioie del sesso, si ritrovano in un vero e proprio inferno. In una fabbrica dismessa un’organizzazione criminale mette a disposizione cavie umane per i sadici giochi di facoltosi clienti. In periodo di saldi il prezzo per torturare un americano vivo e vegeto è 10.000 dollari.
Il sadismo espositivo di Eli Roth supera ogni pessimistica previsione, costringendo anche il più grande appassionato di splatter horror a coprirsi gli occhi. Bulbi oculari penzolanti, tendini recisi, dita mozzate, crani fracassati, sono solo un assaggio del panorama offerto nei novantacinque minuti di Hostel, un horror a tinte forti la cui idea nasce da un colloquio avvenuto tra Roth e il webmaster di Ain’t it cool news Harry Knowles sui peggiori “snuff movie” in circolazione su Internet. Il più cruento secondo Knowles rappresentava un’ organizzazione thailandese che dava a clienti disposti a pagare poche migliaia di dollari, la possibilità di torturare e uccidere esseri umani. Spronato da Quentin Tarantino, poi diventato produttore esecutivo del progetto, Eli Roth si è messo all’opera per fare un film che parlasse di quella macabra e brutale perversione. Così con 40 giorni di riprese e 4 milioni di dollari di budget ecco una versione esasperata del concetto di gore cinematografico. In realtà guardando Hostel la cena non vi tornerà su immediatamente. I primi trenta minuti offrono una mediocre sex comedy a buon mercato, nei seguenti cinquanta iniziano gli omicidi e l’atmosfera da “European Vacation” diventa un mal riuscito tributo ai maestri d’oriente Hideo Nakata, Park Chan Wook e Takashi Miike. Magari diremmo noi. Perché non c’è tensione nella spirale di violenza e scarnificazione operata da Roth.
Buona l’idea di unire il concetto della mercanzia umana, proposta in film come Hard Target – Senza tregua, unendolo a situazioni di chirurgia sulle prede, come nei recenti Creep – Il chirurgo e La casa dei 1000 corpi. Ma dagli autori che Roth sembra voler citare, come Takashi Miike per altro qui presente con un piccolo cammeo, il regista dà l’idea di aver recepito solo il peggio, mancando laddove quella cinematografia invece eccelle: nell’illusione della convinzione. Non essendo riuscito con Hostel a spaventare, ma per lo più ad infastidire l’audience, Eli Roth farà bene a continuare a presentare come biglietto da visita il più convincente Cabin Fever ispirato più al suo mondo che a quello di Miike, quello cioè degli horror anni ’70 made in USA. Intanto l’ente turismo di Bratislava ringrazia.
di Alessio Sperati