Vera, verissima, senza appigli. Come la più disperante delle realtà. Diremmo come un incubo ma di quelli più insopportabili, basta un sussulto e ci si sveglia. Dal Ruanda del genocidio, che negli anni Novanta vide fatti a pezzi centinaia e centinaia di esseri umani, più di un milione solo nei cento giorni dello scontro più cruento, non ci si poteva svegliare, né salvare. Solo fuggire: chi poteva e chi voleva. Non volle Paul Rusesabagina. Meglio, avrebbe voluto e potuto ma restò per salvare il salvabile e il salvabile, nel paese lacerato dallo scontro tra Hutu e Tutsi, stava solo negli uomini, nelle donne, nei bambini, bersaglio preferito perché nella fase in cui gli Hutu cercarono di eliminare i Tutsi era proprio da loro che cominciavano per cancellare le generazioni di ogni futuro possibile. Per questo in quei cento giorni d’orrore a Kigali Rusesabagina restò, rischiando tutto, sfruttando ogni amicizia possibile, ogni conoscenza, ogni aggancio per nascondere e proteggere una piccola frotta di disperati dai reiterati assalti delle milizie Hutu pronte a fare a pezzi “ogni scarafaggio Tutsi” con i machete, utilizzando ogni astuzia, lottando per mantenere una lucidità dentro un inferno che aveva l’aspetto di una macelleria. Il suo bunker fu l’albergo in cui lavorava, le sue armi solo i soldi (finché non finirono) per pagare la protezione dei soldati, la sua forza una famiglia che rischiava con lui e un’umanità (ancor prima che dei valori) che scoprì, d’un colpo, di possedere. Come ogni eroe per caso. Fu un piccolo uomo nel bel mezzo di un genocidio e fece la differenza. Lui, solo mentre la comunità internazionale ignorava o evitava di intromettersi troppo. Di più: compariva e scompariva nei momenti cruciali in cui c’era da decidere, da combattere, da salvare. Di più. Come dice l’ufficiale canadese a capo di un contingente Onu interpretato da Nick Nolte: «Per l’Occidente, per le Nazioni Unite voi siete spazzatura. Non resteremo, non fermeremo questa carneficina. E tu non sei neanche un negro, sei un africano».
Dopo dieci anni da quel massacro i politici di tutto il mondo hanno chiesto scusa, sono corsi in pellegrinaggio in Ruanda per farsi perdonare dai sopravvissuti e hanno ripetuto, come sempre, che una cosa del genere non dovrà più accadere. Eppure sta già accadendo, in Sudan, in Congo. Ma, lì, che conta la vita umana? Quanto pesa per un occidentale che non sa neppure che quei posti esistono e, se esistono, chissà dove sono sulla carta geografica? Terry George lo ripete tutto questo. Lo ripete ogni volta che si trova a parlare di questo suo Hotel Rwanda, film che sta per essere presentato fuori concorso al festival di Berlino, che da marzo sarà nelle nostre sale e che parteciperà alla corsa per gli Oscar con due candidature, per l’attrice non protagonista, Sophie Okonedo (già apprezzata in Piccoli affari sporchi) e per l’attore protagonista, un indimenticabile Don Cheadle, che recita al fianco di Nick Nolte ma anche di Joaquin Phoenix. È lui che dà il volto a Paul Rusesabagina, che cominciò col tentare di salvare la sua famiglia e rischiò tutto (cominciando dalla sua vita) per salvare, alla fine, 1268 persone. E fu costretto a farlo restando per mesi in mezzo al fuoco, nell’andirivieni di soldati e di ribelli inferociti che sembravano, in ogni momento, pronti a farli a pezzi (e lo avrebbero fatto senza i soldi, le astuzie, gli escamotage del disperato e lucidissimo Paul) e mentre intorno a lui tutto crollava, gli uomini scomparivano e le case bruciavano, insieme ad ogni sogno di convivenza (tra etnie) possibile.
Con lui, che nel frattempo si è trasferito in Belgio, Terry George ha cominciato a girare il Ruanda per i sopralluoghi, finché si è ritrovato in uno dei tanti luoghi del massacro: «Siamo andati in un edificio che un tempo ospitava una scuola professionale e abbiamo attraversato stanze piene di scheletri mummificati, gli scheletri di circa 40.000 persone massacrate in quattro soli giorni nell’aprile del ’94. Ho ascoltato i racconti dell’unico sopravvissuto a quel massacro e ho capito che non c’era nulla di più importante ed urgente per me che realizzare questo film». E finalmente qualcuno ci ha raccontato questa storia terribile, disumana ma purtroppo solo umana. Finalmente e scegliendo non la via più diretta, meno tortuosa in un caso come questo, del documentario ma la via del duro e puro lungometraggio costruito condensando fatti e situazioni davvero accadute al protagonista, non sbagliando nessun tempo e nessun ritmo narrativo, neppure nei momenti più truci in cui sarebbe bastato un nulla per scivolare nell’eccesso o, all’inverso, per peccare edulcorando. Ma non solo: riuscendo a rendere universali situazioni e personaggi davvero lontanissimi da noi e aiutando gli attori ad evitare ogni sbavatura, permettendo loro di straziare senza mai scivolare nel patetico, insomma stringendo la sua storia di sopravvivenza e di eroismo in due ore che ti strappano il cuore. E che nessuno dovrebbe evitare di vedere, di cercare, di capire. Anche perché lo abbiamo evitato in tanti, sino ad oggi. Vergognosamente.
di Silvia Di Paola