Per Alfonso Cuarón sembra che nulla, proprio nulla sia impossibile. Pare sia in grado di districarsi tra un thriller, una famosa saga per l’infanzia o un moderno adattamento di Dickens a commedia “on the road”. Sembra che il regista messicano riesca a rintracciare dentro di sé le risorse necessarie per far in modo che ogni avventura cinematografica porti indelebile la sua firma. Oggi Cuarón ha deciso di confrontarsi con una nuova avventura dalla difficile definizione e catalogazione, ma che riesce probabilmente meglio di altre a dare voce alle aspettative, ai timori ed alle speranze dell’uomo, più che alle ambizioni del regista. Considerato come un film di fantascienza I figli degli uomini porta solo sporadicamente i segni del genere, lasciando all’opera una più vasta ed indipendente capacità rappresentativa. Attraverso l’utilizzo di una ripresa volutamente in stile documentaristico che regala all’insieme un aspetto di presa diretta e low budget (in realtà il film prodotto dalla Universal è stato particolarmente costoso visto che ha richiesto una attenta ricostruzione) lo spettatore si trova immerso in un Blade Runner meno futuristico e paurosamente più realistico. Grazie all’uso convenzionale del futuro Cuarón impone una visione senza veli del presente. L’effetto emotivo è quello di una forte e devastante identificazione col reale, mentre quello artistico mostra un’opera che porta in sé le tracce di una qualità riconoscibile. La collocazione temporale (ci troviamo nell’anno 2027) e quella territoriale (i confini sono quelli di un’Inghilterra sconvolta) sono dei presupposti narrativi senza alcuna valenza fondamentale, ma si trasformano in materiale speculativo, specchio all’interno del quale vivida si riflette verso l’uomo l’immagine di una società afflitta da una aridità riproduttiva e sentimentale.
Lungo le grigie strade di una Londra infestata da attentati, Cuarón dissemina i segni di una simbologia della distruzione ben precisa. Dalla prigionia e deportazione di minoranze etniche che con troppa precisione fa riferimento ad una precisa iconografia di terrore per non ispirarsi ad essa, alla condanna di qualsiasi ideologia volta a creare incapacità comunicativa, fino ad una guerra che finalmente non viene santificata ed in qualche modo eroicizzata, ma condannata come causa di distruzione massiccia senza né vinti né vincitori, si arriva alla consapevolezza di un futuro lastricato dagli errori del nostro passato, in cui la violenza si ripresenta sotto forme e nomi diversi, mantenendo intatta la sua potenza distruttiva. Questa volta gli eroi non imbracciano fucili, ma vestono i panni dell’uomo qualunque impegnato nel salvare un miracolo che diviene ragione di vita ed alimentazione di speranza. Clive Owen e Claire-Hope Ashitey rappresentano la ragione stessa del mondo, la soluzione, la consuetudine a cui tornare. L’uomo bianco e la donna di colore che escono intatti dalle macerie di un mondo in rovina sono l’immagine stessa di un futuro che deve trovare nuovo vigore non nell’isolazionismo, ma nell’integrazione, mentre il neonato racchiude in sé tutta la forza di un passato, futuro e presente in divenire, esaltando la sua forza generatrice capace d’imporre per pochi attimi il silenzio alla guerra. Certo se si vuol ben guardare in fondo a questa immagine si potrebbe trovare una fedeltà iconografica di stampo religioso, quasi un insieme da sacra famiglia, ma è una sensazione che s’intensifica per un attimo, giusto il tempo di comprendere che non stiamo strettamente parlando di fede ma di una laica speranza.
di Tiziana Morganti