Nel 1968 in Sudafrica venticinque milioni di neri furono governati da una minoranza composta da solo 4 milioni di bianchi. Fu proibito loro di votare, studiare, viaggiare liberamente, possedere un’attività, un terreno e perfino una casa. Forte del suo potere la popolazione bianca impose ad una maggioranza nera anche il divieto di organizzarsi in qualsiasi forma politica, esiliando e poi imprigionando il suo leader politico per più di 20 anni. Tutto questo può sintetizzarsi con una sola parola, che rappresentò l’apice e l’evoluzione estrema del razzismo. L’Apartheid divenne la personificazione dell’ingiustizia sociale, mentre Nelson Mandelarappresentò la forza di una comunità e di un paese che non poteva accettare di arrendersi alla cecità ed alla sordità del pregiudizio. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Berlino proprio la sera dell’11 febbraio, in occasione del diciassettesimo anniversario della liberazione di Mandela, Il colore della libertà – Goodbey Bafana ( nel dialetto Xsona dovrebbe significare “arrivederci ragazzo”) prende spunto dal memoriale della guardia carceraria James Gregory ( Nelson Mandela, da nemico a fratello) a cui venne affidato il compito di vigilare sulla sicurezza del leader durante la sua prigionia. L’impianto narrativo, gestito ed organizzato dal regista Bille August( La casa degli spiriti, Il senso di Smilla per la neve),trova forza e possibilità di espandersi in una storia credibile ed emotivamente coinvolgente grazie all’introduzione di un ragionevole dubbio che si colloca come terzo personaggio tra Dennis Haysbert ( meglio conosciuto come il Presidente Palmer nella serie 24) e Joseph Fiennes. Un tarlo che proviene dalla conoscenza e che s’insinua tra il mistificante dogma di un indottrinamento culturale e la non conoscenza del diverso, fino ad aprire uno spiraglio al dialogo ed al confronto per poi scoprire incredibili similitudini umane. In questo incontro fatto di parole e silenzi s’intravede il paesaggio sociale di un paese travolto e impaurito dalle sue stesse false convinzioni.
Tra la certezza che la segregazione nasca quasi da un volere divino e la consapevolezza di essere soffocato da un regime che legittima e protegge la non conoscenza intercorrono più di venti anni, attraverso i quali Gregory compie un viaggio indimenticabile al centro della storia. Privo di eccessi di retorica, caratterizzato da una regia lineare e pulita, il film regala soprattutto una simbologia forte, cercando di ridarci il profilo quanto più reale o verosimile dell’uomo Mandela attraverso una peculiarità linguista ed etnica capace d’imporre un modo espressivo condivisibile. Alcuni possono criticare all’opera una certa didascalia ed una semplificazione degli eventi, ma il grande merito di questo film è proprio nell’immediatezza del messaggio, nel poter diventare strumento di veicolazione senza ricorrere a mezzi fortemente melodrammatici utilizzati per scimmiottare il così detto cinema d’autore. E’ pur vero che si glissa forse con troppa leggerezza sulle crudeltà subite dalla popolazione nera in quegli anni, ma attraverso uno scelta narrativa così diversa si è cercato, per assurdo, di dare nuova forza al messaggio di pacificazione sostenuto dallo stesso Mandela. Lungi dal voler realizzare un film di denuncia, August si è lasciato conquistare soprattutto dal viaggio privato di due uomini partiti da punti diversi che, alla fine, hanno percorcorso fianco a fianco un tratto della medesima strada, dimostrando la fondatezza di un uno dei principi sostenuti dal leader sudafricano: gli uomini, tutti gli uomini possono cambiare. Girato interamente nei luoghi dove si sono svolti i fatti ed avvalsosi dei ricordi della moglie di Gregory morto nel 2003 per un cancro, Il colore della libertà è un opera inattaccabile per contenuto e messaggio, soprattutto se si riflette sulla condizione attuale di una generazione che solo vagamente conosce la vicenda personale e storica di Mandela, per non parlare di una realtà che ancora è lontana dal condividere e fare proprio un messaggio di tolleranza e pacificazione, di comprensione e reciproca accettazione.
di Tiziana Morganti