Chi avrebbe mai creduto che il re del Dogma, l’inventore ed ideatore di un nuovo modo d’intendere e percepire l’immagine scegliesse di lanciarsi nell’ignota avventura della commedia. A cinquant’anni, con un passato cinematografico alle spalle di riconosciuta autorialità, Lars Von Trier stupisce il pubblico, e forse in parte anche se stesso, accettando l’incognita di Il grande capo.Evidentemente, dopo aver scavato a fondo all’interno di una umanità gretta, meschina ed impaurita, era giunto il momento di farla anche ridere attraverso i suoi stessi difetti. Ambientata all’interno di una ditta informatica, la vicenda mette in evidenza tutti i meccanismi e gli eccessi di un microcosmo lavorativo dall’inquietante profilo umano. Tra tutti si staglia la figura del grande capo, appunto, elemento che incarna la finzione e la rappresentazione di un particolare capro espiatorio su cui tutti gli impiegati riversano la loro necessità di essere amati ed accettati. Il proprietario della ditta, per timore di accentrare su di se i malumori e le antipatie dei suoi impiegati, inventa la figura di un grande capo che, a causa di un importante contratto con degli islandesi, viene momentaneamente interpretato da un attore fallito.
Ed è proprio in questo punto che s’innesca il meccanismo comico di tutto il film, mettendo in ridicolo i tic, le idiosincrasie degli attori, i loro metodi ed i guru che li professano. Il tutto porta ad un film particolarmente arguto e dal ritmo incalzante, il cui senso comico si deve non a delle gag sporadiche ma a situazioni costruite sull’illogico ed il surreale, non perdendo di vista alcune tra le più importanti commedie hollywoodiane firmate Woody Allen. Certo è che per ottenere un effetto di questa portata Von Trier ha rinunciato all’applicazione delle regole del Dogma, affidandosi in questo caso alla creatività dell’Automavision, una nuova tecnica di ripresa che utilizza una camera fissa comandata da un computer che decide, piuttosto casualmente, cosa riprendere e come. Dunque Lars Von Trier non rinuncia all’originalità ed all’eccentricità dell’immagine che, attraverso inquadrature tutt’altro che classiche, conferisce maggior personalità alla vicenda. E per finire, tanto per creare ancora più attenzione intorno a questa sua avventura, il regista danese ha indetto una specie di concorso tra gli spettatori, sfidandoli a trovare nel film una serie di lookey, ossia delle tracce attraverso le quali comporre un rebus. Si tratta di immagini od oggetti totalmente al di fuori del contesto del valore di 4.000. euro, che andranno a chi riuscirà a risolvere il rebus. Buona caccia.
di Tiziana Morganti