A Marco Bellocchio piace rompere gli argini. L’ha fatto con Sangue del mio sangue, il film in concorso a Venezia e nelle sale che mostra, tra rigore storico e ironia, uno spaccato seicentesco e uno attuale della sua Bobbio. Il regista piacentino voleva andare per la sua strada, fare quello che gli piace fare, perché alla sua età (76 anni) “o si rimbambisce o si cerca sempre di divertirsi”. E proprio con questo intento è nato il film, affidato a un cast di prim’ordine, con Roberto Herlitzka, i figli Pier Giorgio e Elena Bellocchio, Filippo Timi, Alba Rohrwacher, Federica Fracassi, Lidiya Liberman, Toni Bertorelli, Fausto Russo Alesi, Ivan Franek.
Un film tragico e grottesco, che l’autore definisce “libero” (ossia senza quel rigore all’americana dove tutto deve corrispondere), che segue due vicende ambientate in epoche diverse nel borgo piacentino che per lui è “un mondo”. Il progetto parte dalla scoperta da parte del regista delle antiche prigioni abbandonate del convento di San Colombano di Bobbio, dove nel medioevo Benedetta, una suora di clausura, fu murata viva per aver sedotto un ecclesiastico e non voler ammettere la complicità del demonio.
Il film parte dunque da questa angosciante e violenta storia dalle atmosfere cupe, che sottolinea il profondo fastidio di Bellocchio per ogni forma di potere, come quello esercitato dalla Chiesa in quell’epoca. E il potere della donna, detentrice di forza, vitalità e carattere, causa di salvezza e dannazione.
La seconda parte, più ironica e lieve, apparentemente slegata dalla precedente, punta il dito sull’opportunismo, il malaffare e la volgarità dei giorni nostri. Bellocchio sottolinea che la libertà è lo spirito di questo film, che non gli interessava stabilire connessioni rigide tra presente e passato. “Il dominio assoluto della Chiesa cattolica del ‘600 paradossalmente si conclude con il dominio democristiano. A Bobbio questa corruzione succhiava il sangue a un prospetto di rinnovamento. Benedetta è l’immagine di una bella libertà che non vuole arrendersi”.