Torna al cinema colui che si sente erede spirituale di Argento. Noi fan un po’ pazzoidi, quasi una setta, attendevamo, magari senz’ansia. Ebbene, il caro Dario, caso mai vincesse la sua nota accidia e decidesse di andare a vedere questa opera seconda del raccomandato Alex Infascelli, di sicuro scoppierebbe a ridere, cosa ancor più grave dato che avevamo appena finito di farci quattro risate noi con quella porcheria (tutto sommato divertente) che era Il cartaio. Il siero della vanità è l’emblema non della confusione del cinema di genere, ma della sua totale morte celebrale. Thriller-noir su soggetto del cattivo ragazzo Ammaniti con venature orrorifiche, satira di costume, corrosiva inchiesta mass-medio-sociologica sulla televisione che ipnotizza, rimbambisce, fagocita, illude, delude ed uccide chi la guarda, chi la fa e chi viene ospitato. Niente meno. La colpa primaria di Infascelli è aver dichiarato che certo, lui in tv ci andrà per promuovere il film, mica è un ipocrita, sa riconoscere quando applicare distacco e ironia nel mondo trash-televisivo che descrive-accusa e che lo ospiterà. Se non lo avesse detto, saremmo stati meno implacabili con questo gialletto che vede uno ad uno sparire alcuni bizzarri personaggi che hanno partecipato tutti, ma guarda un po’, ad una puntata del cinico e celebrato “Sonia Norton Show” (Francesca Neri impacciata e cattiva con parrucca). Ma lo ha detto, e la situazione si aggrava.
Perché Il siero della vanità, con le sua maschere grottesche al limite (il bue-clown “scoreggione” è copiato paro paro da un gioiellino sconosciuto di Danny De Vito, Eliminate Smoochy, solo che lì era un rinoceronte), i suoi salotti televisivi di plastica, il suo finto-realismo da poliziottesco sanguinolento e trucido, la Buy che fa la detective cazzuta e zoppa con senso di colpa, gli attori anche bravi, sprecati (Bobulova “Miss Italia” cocainomane che non sfonda perché non si concede, Maggi dall’hit-parade al baratro, Giallini che fa il verso al filosofo-scrittore-psichiatra-non-si-sa-cosa onnipresente da Costanzo, Mastandrea coatto “vice” sempre presente), le sue frecciatine moraleggianti, la sua Roma fosca e morbosa, “La banda” di Mina che risuona sinistra, il suo finale tra le fogne-lager al laghetto dell’Eur con la stampa fintissima, con tutto questo e altro ancora, diventa (auto) satira annacquata dal suo stesso sguardo, una sorta di inconsapevole “reality show” della menzogna, spettacolo che vorrebbe condannare il sensazionalismo senza ipocrisie (vedi il finale) ma fa solo simpatia, e forse anche un po’ pena per la sua arrogante rozzaggine. E che si spegne, come faremmo noi col telecomando, non inquietando per giunta neanche un po’ (se si eccettua l’incipit con testa mozzata, ma è un attimo). Dopo Almost Blue, in cui Infascelli aveva stravolto Lucarelli e aveva fatto gridare al talento incassando parecchio e vincendo premi (forse perché il suo è un genere che non si fa più), ci aspettavamo qualcosa di diverso, di più maturo, che andasse oltre certa tecnica visiva e registica.
di Francesco De Belvis