Remake dell’omonimo film diretto da Robert Aldrich nel 1965, la versione 2004 de Il volo della Fenice è il tipico esempio di quello che gli Americani chiamano “materiale da popcorn”. Vale a dire una pellicola di azione e avventura che diverte e intrattiene il pubblico senza richiedere una particolare concentrazione ma che all’uscita dal cinema non lascia traccia nella memoria. Diretto da John Moore e prodotto (non a caso) dalla Aldrich Group (la società di William Aldrich, figlio di Robert) e Twentieth Century Fox, il film racconta le peripezie di un gruppo di sopravvissuti ad un disastro aereo in pieno deserto del Gobi, in Mongolia. Il pilota del cargo C-119, capitano Towns, e gli altri passeggeri, operai e impiegati di una compagnia petrolifera, si rendono presto conto che per sfuggire all’inospitalità del deserto e agli attacchi dei predoni l’unica via di fuga è quella di costruire un altro aereo con i rottami di quello distrutto nell’incidente. Rinascerà (come la Fenice dalle sue ceneri) un velivolo più piccolo, ma sarà in grado di volare? È questo l’interrogativo che scandisce il ritmo della narrazione. Ritmo che, tuttavia, dopo una partenza velocissima e una ripresa nel finale, nella parte centrale perde l’intensità dell’avventura nella pretesa, mal riuscita, di delineare le dinamiche del gruppo e i ritratti psicologici dei singoli.
Al limite della sopravvivenza, con poco cibo e poca acqua e una temperatura di 50 gradi, sono inevitabili i momenti di tensione e di sfiducia reciproca, di lotta per la leadership nelle decisioni da prendere. A fronteggiarsi per questa ci sono Dennis Quaid (attualmente sul grande schermo anche con In Good Company), nei panni del pilota cinico e senza paura, e uno strepitoso Giovanni Ribisi (Lost in Translation, Salvate il soldato Ryan, The Gift), quasi irriconoscibile con i capelli biondi e gli occhialini senza montatura, nel ruolo del misterioso Elliott, che, unitosi agli altri all’ultimo momento prima di partire, sostiene di essere progettista di aerei. Il vero protagonista, però, è il C-119, l’aereo militare da trasporto, chiamato anche “vagone volante”. La produzione ha utilizzato quattro esemplari, tre trovati in un cimitero di aeroplani di Tucson. Tutti i quattro velivoli, ognuno del peso di 20 tonnellate, sono stati smantellati e spediti in Namibia, nei luoghi scelti per gli esterni per la bellezza del deserto e l’austerità delle vaste dune. Gli effetti speciali digitali e l’uso di aerei da modellismo per alcune riprese hanno fatto la loro parte nella realizzazione delle scene del disastro e del volo. Una curiosità: la colonna sonora del film del ’65 era stata la canzone Senza fine di Gino Paoli, ora sostituita dalle moderne sonorità dance di Marco Beltrami.
di Patrizia Notarnicola