Il bell’Antonio ci osserva dallo schermo con lo sguardo di un asceta addolorato e rassegnato, con l’ambizioso proposito di accompagnarci tra le trame di un terrore cieco ed oscurante. Ma delusione, vergogna ed irritazione avvolte da una mal celata ironia, causata da un più che evidente senso del ridicolo, sono le uniche emozioni che Immagining Argentina riesce a produrre. Presentata in “concorso” alla 60 edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia ed attesa con non poche aspettative, la pellicola delude riuscendo nel poco onorevole tentativo di trasformare un tema socialmente e storicamente valido come quello della dittatura militare argentina in una farsa melodrammatica dai risvolti ironicamente esoterici. Senza dubitare delle ottime intenzioni che dieci anni fa hanno spinto il regista Hampton a trarre una sceneggiatura dall’omonimo romanzo di Lowrence Thorton, non possiamo fare a meno di chiederci quanto una visione registica così “particolare” abbia recato danno alla struttura originale della storia. Il dramma di un popolo soggiogato dalla dittatura militare visto e percorso attraverso la mente di un solo uomo che, in qualche modo, racchiude e comprende più sofferenze, avrebbe potuto essere un nuovo, interessante punto di osservazione se la realtà degli eventi non fosse stata sopraffatta da inesattezze, superficialità e da una dilagante immaginazione. La volontà di rendere noto un delitto perpetrato ai danni dell’umanità non autorizza ad infarcire metri di pellicola con immagini di campi inondati di fenicotteri rosa, voli d’uccelli e gufi che, in pieno giorno, si prendono il disturbo di presenziare di fronte ad un Banderas stravolto dalle sue visioni per lanciare messaggi profetici.
Non è plausibile accettare l’accomunanza tra il destino dei desaparecidos argentini e quello delle vittime dell’Olocausto, producendo un confuso calderone storico, se il terrore, il disgusto e l’insensata violenza vengono rappresentati attraverso un “bizzarro” montaggio che li accomuna ad eleganti danzatori di Tango ed al solito tenace Antonio in atteggiamento da santo martire pronto a porgere l’altra guancia. Nascondendosi dietro la volontà di raccontare una storia evitando lo stile documentaristico e storico, Hampton ha la pretesa di proporci la grande ed universale lezione sulla forza vitale dell’immaginazione senza considerare che non tutti hanno la sensibilità ed il mestiere di Benigni. Tra il 1976 ed il 1983 in Argentina sono scomparse ben 30.000 persone. Altre sono tornate alle proprie case, riconquistando faticosamente vite distrutte dopo essere state torturate fisicamente e moralmente. Dopo essere state violentate ed aver desiderato la morte non solo come il male minore, ma come la sollevazione da sofferenze impensabili. Non si scorge alcuna immaginazione in tutto questo, ma solo una cruda, inevitabile realtà storica che avrebbe meritato di essere rappresentata con lo stesso duro e dolente impatto di Garage Olimpo (1999) che, “più che all’indignazione, induce alla nausea e alla vergogna di essere argentino, di essere umano” (Gustavo Noriega). La storia di molti avrebbe dovuto essere la protagonista assoluta in grado di imporre la dignità delle proprie vittime e dei propri sopravvissuti. Delle madri di Plaza de Mayo che ancora oggi manifestano ogni giovedì per fare in modo che nessuno dimentichi ciò che non dovrà accadere mai più. Una dignità ed una forza che viene offesa e derisa dalla superficialità di un film il cui unico elemento positivo rimane la suadente voce di Banderas. Veramente troppo poco per quei 30.000 desaparecidos. Metrica e linguaggio.
di Tiziana Morganti