Quinto film per il giapponese Masayuki Ochiai, già rodato nel genere horror e inserito in un pacchetto di specialisti proposto dall’attivissimo produttore Taka Ichise, le cui opere sono state acquistate in blocco dalla Lion’s Gate International all’ultimo Cannes e che verranno distribuite in Italia da una società appositamente creata da una costola della Mikado Film, la Timecode. Proprio a Ichise dobbiamo i vari Ring, The Grudge, Dark Water e derivati e a lui va il merito di aver alimentato un vero e proprio sotto-genere, il J-Horror (dove “J” sta naturalmente per Japanese). Come una sorta di “Dogma”, alcuni canoni artistici rendono uniforme tale produzione e sono facilmente riscontrabili nella precisa delimitazione del genere cinematografico, nell’utilizzo di effetti speciali di fattura artigianale (niente CGI) e nell’aggiunta di un substrato da psychothriller manieristico e votato alla demarcazione di un confine surreale tra i vivi e i morti, tra realtà ed allucinazione. Di rado in questi film troveremo mostri, zombi o roba del genere, ma più frequentemente donne e bambini affetti da visioni, infezioni – appunto – della mente.
Il J-Horror di Ochiai (già regista di Hypnosis) è ambientato in un ospedale alquanto lugubre, surreale, simile (nei temi non certo nelle architetture) a quello riprodotto da David Carreras nel recente Hipnos. Il primario è stanco, il personale è ridotto al minimo, le condizioni ideali per un errore fatale che, inevitabilmente arriva, causando la morte di un paziente. Sensi di colpa dell’uno, istinto di sopravvivenza dell’altro, l’armonia tra i medici viene definitivamente spezzata. Nel frattempo arriva un altro paziente nell’ospedale; ha un male misterioso, incurabile, che sembra corroderlo dall’interno. Il primario si affretta ad isolarlo ma è tardi, il virus ha già contagiato altre persone, che nel giro di poche ore si sciolgono in una strana sostanza verdognola. Ochiai riesce a creare momenti di tensione pura non mostrando mai “il male” (vuoi per carenza di effetti, vuoi per scelta di stile), limitandosi ad osservare le reazioni degli astanti. Si sfocia facilmente nel sociale e sulle responsabilità deontologiche del personale medico perduto nel suo luogo di lavoro ricostruito da una magistrale autorialità fotografica che ne ritrae la quintessenza, la vibrazione surreale, la dimensione parallela. Come il virus alla base di questo film, il filone J-Horror ha contaminato ormai la cinematografia di tutto il mondo, e l’America, che tenta di dire la sua a suon di remake, cercando di essere protagonista di un fenomeno cinematografico che non le appartiene, lo fa con risultati variabili.
di Alessio Sperati