Con Inside Man il regista e fotografo di Atlanta aggiunge l’ennesimo tassello alla sua nutrita produzione: dai primi passi in una Grande Mela in bianco e nero con splendide modelle a servizio dell’obiettivo, fino all’ultima irrisolta joint Lei mi odia con tanta, forse troppa carne al fuoco, a discapito della sostanza. Il film appare come qualcosa (il genere) che in realtà non è: l’allestimento vede protagonista la Manhattan Trust occupata da una banda di criminali costretti a fare ostaggi. Vittime che secondo la prospettiva del preparato autore afroamericano rappresentano un microcosmo di NY, intrappolata nelle parole di un perdente d’annata (il Monty Brogan de La 25ª ora) nella scena dell’omonimo film, davanti allo specchio di una toilette, e ora libere finalmente di propagarsi nell’aria claustrofobica di un trappola per topi. Afro, messicani, orientali e perfino clienti con tanto di turbante, rigorosamente mescolati al così temuto nemico dell’undici settembre, saranno costretti a convivere per un’ intera giornata nelle anguste stanze di un imponente edificio mascherati come i lori aguzzini.
La sceneggiatura di Russel Gewirtz, al suo esordio (come accadde per David Benioff) è tra i punti forti della pellicola. Un timing perfetto laddove si alternano i differenti sguardi della macchina da presa (ancora una volta Lee si affida alla doppia camera) puntati su pochi interpreti di razza. Clive Owen (ottimo in Closer) riesce, nonostante passi gran parte del tempo con il volto nascosto da una tuta e un paio di occhiali scuri, ad imprimere una potenza magnifica al personaggio che si diverte a giocare con i poliziotti; Denzel Washington, in forma smagliante, dà vita ad un detective – negoziatore, reo di non aver commesso il fatto, in cerca di riscatto; la ciliegina sulla torta porta il nome di Jodie Foster, per una volta libera da indumenti insaccherati o alle prese con missioni impossibili. La sua Madeline White appare immacolata (il cognome dovrebbe suggerire qualcosa) davanti alla gente perbene, mentre di soppiatto si sporca le mani negli affari più loschi. La regia non si preoccupa in nessun modo di far aderire i diversi stilemi di copioni polizieschi e thriller, ma prendendo a prestito tali avviati meccanismi fa scattare un gioco perverso con il pubblico intento a scoprire non tanto i responsabili del colpo perfetto, ma ad individuarne il movente.
Lo sguardo serio e spietato di Owen dritto in camera ci tiene a mettere in chiaro una sola cosa: stare bene attenti perché ‘lo spiegherò una sola volta’. Come a voler invitare la platea a non cedere ad alcuna distrazione allo scopo di comprendere a pieno ‘l’intoppo che nasce’. Se da un lato la descrizione dei malviventi appare netta e precisa all’interno della cassaforte statunitense sita in Wall Street, dall’altra questa deve necessariamente scontrarsi con una città – universo ultraviolenta (commovente il dialogo fra il bambino di Brooklyn tutto preso da un videogame splatter e il rapinatore stupito da tale visione). Ben attenti a non svelare nulla dell’affascinante e complessa trama, si potrebbe dire che la pellicola non è soltanto un omaggio agli anni Settanta con echi alla Lumet, ma vuole essere l’ennesimo atto d’accusa nei confronti di quell’immaginario confine che dovrebbe isolare il Male dal Bene o almeno così è se vi pare.
di Ilario Pieri