Pur nella sua veste esemplificata verso il puro entertainment, Io Robot si muove in territori preziosi, e non solo per il suo autorevole titolo (uno dei testi sacri del prof. Isaac Asimov), ma per le tematiche che va a toccare. Il film di Alex Proyas (Il corvo, Dark City) applica le più moderne tecniche di VFX e CGI servendosi di maestri del settore come Matt Aitken (Il Signore degli anelli) e il grande Patrick Tatopoulos (The Chronicles of Riddick, Godzilla, Underworld) per le scenografie. Le esigenze stilistico-rappresentative del film sono paragonabili a quelle di un progettista robotico: la necessità di creare un meccanismo pensante dotato di un’esteriorità attraente. Io, Robot, ben lontano tuttavia dalle magie cinematografiche di Blade Runner, A.I. Artificial Intelligence, o del più recente Minority Report, salda la sua struttura portante su un soggetto thriller scritto dieci anni fa da Jeff Vintar, arricchito dai concetti di Asimov ed applicato ad un mondo alla Philip K. Dick, non riuscendo però, proprio per il suo bisogno forsennato di intrattenere lo spettatore con sparatorie, corse, e vertiginose altezze, a dire qualcosa di diverso dal passato. È pur vero che la moderna CGI di Io, Robot ha permesso di elevare all’ennesima potenza quel procedimento identificativo tra l’uomo e la macchina iniziato con il cinema stesso, dando vita ad un organismo cibernetico, il robot Sonny, espressivo quasi quanto un uomo, pur non essendo interpretato da un attore in carne ed ossa come ad esempio in Blade Runner.
Ma a cosa si deve questa necessità di identificazione tra l’uomo e la macchina? Sicuramente non è questa la sede per analizzare le ragioni psicologiche per le quali l’immaginario collettivo ha da sempre voluto che in quella massa multiforme di metallo e gomma (il robot) ci fosse qualcosa di rassicurante. Di sicuro possiamo affermare che da quando esiste il cinema esiste anche il robot, ed esso ha per di più sin dai primordi sembianze umane, prima ancora della sublime Maria di Fritz Lang (1927). È del 1897 il film Gugusse et l’Automatee già nel 1918 in The Master Mystery si percepiva il robot come una minaccia. Dunque lontani dalle svolte concettuali degli anni ’50, quando solo allora si inizierà a parlare di intelligenza artificiale grazie soprattutto agli scritti di Alan Turing, il robot aveva già una sua rappresentazione, ed era molto simile a noi. D’altra parte è sempre esistita la possibilità di contaminazione tra uomo e macchina, ovvero il concepire un organismo vivente dotato di arti ed organi cibernetici, un po’ forse per quel sentimento di legittima invidia verso un meccanismo privo di coscienza ma anche immortale, e concettualmente riparabile in eterno. Le svolte tematiche di Asimov, non si muovono però verso l’evoluzione tecnica: l’obiettivo ideologico della robotica non è solo quello di elevare le capacità di calcolo, affinando l’intelligenza artificiale, ma di creare una vera e propria “coscienza artificiale”.
Quell’ “IO” non è messo lì a caso, presuppone un vero e proprio salto concettuale, avvenuto proprio negli anni ’50, che si concretizza nel fatto che il robot Sonny non è migliore perché capace di provare emozioni, ma è migliore perché unico (vedi la semantica della scena finale del film di Proyas), qualità essenziale dell’essere vivente. Anche in questo campo il cinema ha già detto la sua: molto si deve a Kubrick che con il suo Hal 9000 di Space Odissey, preludeva quel salto, dall’universale al personale, eseguito postumo da Spielberg con A.I.Quindi l’unicità di una pellicola come Io Robot non è nel suo pur appariscente confezionamento, né per il suo background concettuale (datato come abbiamo visto 1950), ma per la creazione del robot Sonny, dal rassicurante diminutivo molto simile a quello di Robby de Il pianeta proibito di Fred M. L. Wilcox (1956). In questo concentrato di motion capture e CGI si ha l’unione dei concetti di organismo cibernetico e di organismo cosciente, il primo nato dall’affinamento delle tecniche “psicocibernetiche”, il secondo un vero paradosso filosofico, al pari del Pinocchio di Collodi. Se ci ricordiamo, il Pinocchio non assumeva autocoscienza e percezione della realtà una volta dotato di forma definitiva, ma “sentiva” ancora come ceppo di legno. L’essere autocosciente quindi lo è aldilà della sua forma, e, soprattutto, può raggiungere questo stato di consapevolezza autonomamente. Gli incubi futuristici di Philip Dick, le visione nefaste del manga Ghost in the Shell, Spielberg, Kubrick e tutto il cinema di genere trovano dunque in Alex Proyas uno scopiazzatore incallito, molto meno dotato registicamente dei predecessori ma autore di una pellicola tutto sommato divertente e forse un tantino costosa: per questo il supporto di Audi, U.S. Robotics ed altri sponsor è stato provvidenziale e talmente invasivo da far storcere il naso a tanti, ma ce ne dobbiamo forse fare una ragione, anche Wong Kar-Wai per il suo 2046 ha dovuto osannare la LG. Il futuro della scienza è la psicocibernetica, il futuro del cinema è la pubblicità.
di Alessio Sperati