Confrontarsi con il lavoro di James Ivory non è certo una esperienza semplice ed immediata. Il più delle volte ci si deve cimentare con un’ opera sfaccettata e complessa, frutto di una influenza culturale aperta a qualsiasi imput generativo. Dalla letteratura, alla musica, fino ai riferimenti pittorici scardinare, scomporre un film di Ivory per poi ricomporlo, lasciando intatta l’armonia iniziale, è una esperienza che necessita di una consapevolezza conoscitiva di buon livello. Una sfida che La contessa bianca ripropone con ritrovato vigore, consegnandoci una vicenda che nella dilatazione temporale sembra trovare esaltazione e negazione allo stesso tempo. Durante i 135 minuti della durata viene messa in scena la metafora del mondo, inteso come un’ opera d’arte da realizzare con il giusto apporto degli elementi desiderati, ed il concetto della perdita osservata da vari punti di vista. Alcuni “artisti” sognano visioni piccole ed armoniose, altri aspirano ad affreschi ben più grandi. L’unica differenza si trova negli elementi “estetici” aggiunti e nelle diverse tecniche utilizzate per raggiungere il proprio scopo. Ci sono uomini che hanno perso la propria famiglia e la fiducia verso un mondo che non possono e non vogliono più vedere. Ci sono donne che hanno visto cancellare velocemente le fondamenta di una intera esistenza.
La miseria fisica e dello spirito prolifera senza lasciare alcuna speranza per il futuro. Se poi tutto questo viene applicato al confuso e disordinato mondo di una Shangai del 1936, meta di profughi e diseredati, il senso di dilagante confusione e di snervante attesa prende il sopravvento. Nonostante l’indiscussa bellezza dell’immagine in cui ci si perde con evidente piacere, l’attenzione dedicata alla cura del particolare, il valore di un cast formato da Ralph Fiennes, Natasha Richardson, Vanessa Redgrave e quella dolce sensazione di malinconia che attraversa l’intero film, Ivory cede alle lusinghe di una narrativa prolissa, lasciando allo spettatore l’arduo compito di sintetizzare l’impossibile. Passo dopo passo, seguendo la lenta e stentata strada di un uomo privato della vista, la vicenda perde d’intensità e pathos. Il finale, salutato più con un senso di sollevamento che di partecipazione, conclude una vicenda alla quale, probabilmente è mancata un’anima fatta di palpitante e trainante tragicità. Può capitare, a volte, di trovarsi di fronte ad un film che, nonostante l’indubbia qualità artistica, pur essendo confezionato ad arte in ogni suo elemento, non raggiunga il livello emotivo. In questo caso specifico La contessa bianca paga lo scotto di una lunghezza a causa della quale, non solo si è caduti in piccole banalità narrative, ma soprattutto non si è permettessi all’emozione di mantenere una continuità espressiva. Pur offrendo un opera più complessa ed artisticamente elevata di Le Divorce, James Ivory non è comunque riuscito a riprodurre la formula magica di un successo come Camera con vista. Speriamo che non sia andata smarrita.
di Tiziana Morganti