Alla sua seconda esperienza nei “Wuxia Movie” Zhang Yimou dimostra di essersi appropriato dei canoni linguistici propri al genere ma di volerne in qualche modo sovvertire i fondamenti dialettici. Siamo nella Cina dell’859 d.C., mentre la dinastia Tang esala i suoi ultimi afflati di vitalità, a due capitani di polizia viene affidato l’arduo compito di sgominare il clan ribelle dei “pugnali volanti” catturandone il leader. Intanto un’incantevole ballerina cieca (Zhang Ziyi) si esibisce in un bordello chic di Pechino dove entrambi gli ufficiali vengono attirati proprio dalle abilità della misteriosa danzatrice. Invitata ad esibirsi nella “Danza dell’Eco” Mei viene posta al centro di una cinquantina di tamburi ad altezza viso; il capitano getta un fagiolo percuotendo la membrana di un tamburo che, a tempo, la donna centra agitando a mo’ di frusta i drappi di tessuto che le fuoriescono dalle maniche. Una scena difficile da dimenticare. L’arte marziale non è puro combattimento, come nei classici di Hong Kong, ma diviene qui un sublime simposio di ritmi universali. Il film intero è permeato da una ricercata armonia di forme, movimenti, colori, suoni e sensazioni, comunicata attraverso la mano di uno dei registi più virtuosi dei nostri tempi, già manifestatosi nel capolavoro Hero, espressione di una forma di cinema accomunabile all’impressionismo pittorico.
Anche la diversa figura di autore della fotografia, Christopher Doyle in Hero e Xiaoding Zhao in La foresta dei pugnali volanti, manifesta una ricercatezza direttamente dipesa dalle esigenze del racconto, anche se nel primo la stessa era gradevolmente più accentuata. La natura di Yimou in effetti è ‘fotosensibile’ ai mutamenti emozionali degli attori in scena, così da cangiare dal verde delle canne di bambù, qui usate come fantasioso campo di battaglia, alle montagne dai colori dell’autunno, sfondo della bella storia d’amore, al bianco innaturale della scena finale, fulgente espressione di un climax dove il rosso purpureo del sangue può avere un maggiore contrasto. Ebbene la ragione dei film di Yimou, come nei suoi coetanei orientali, non è una ragione formale, oggettiva, ma condensata nella sua fruibilità. Le situazioni sono le più improbabili e costruite su paradossi fisici: coltelli che cambiano direzione, guerrieri che volano lanciandosi tra le canne di bambù, duelli aerei e quant’altro. Scordiamoci dunque di fornire spiegazioni a trama, personaggi, armi e locations; per queste due ore lasciamo fuori dalla porta la nostra concezione meccanicistico-cartesiana del mondo e facciamoci avvolgere dal piacere di una visione sottoposta agli stimoli di una caleidoscopica girandola di colori, luci, suoni e candidi volti, come quello della musa d’Oriente Zhang Ziyi. Anche la marzialità è arte, e come tale si può esprimere solo se chi la comunica ha i mezzi per comprenderla.
di Alessio Sperati