I salti sul divano di Oprah Winfrey, gli attacchi a Brooke Shields durante lo show “Access Hollywood”, il litigio con l’intervistatore londinese davanti all’Odeon di Leicester Square, l’aggressione a Matt Lauer conduttore della Nbc e naturalmente l’amore folle per Katie Holmes, sono fatti che ci presentano un Tom Cruise mai visto prima, maldestro, nervoso, teso sui cardini della sua filosofia di vita e sulla sua dottrina. Che sia l’allontanamento dalla super ‘press agent’ Pat Kingsley a gettare il divo dei divi in una goffa gozzoviglia tra marketing e circo, una normale crisi di mezza età, o il fatto che a breve sarebbe uscito un film dove aveva investito molto di suo, è difficile a dirsi, ma il fatto è che nei mesi che hanno preceduto l’uscita del mega-film-cocomero La guerra dei mondi Cruise fosse più o meno dappertutto, facendo parlare molto poco del film e molto più di se stesso e della sua nuova fiamma (anche lei guarda il caso alla vigilia del primo grande ruolo da protagonista), in una tournée mondiale che farebbe invidia agli U2, intrufolandosi in serate, feste e situazioni varie per presentare l’ennesimo trailer in cui non si vedeva altro che qualcuno con gli occhi puntati in alto. Giunta la fatidica data, ci si avvicina alla sala con l’emozione delle grandi occasioni, ci sigillano il cellulare per la pirateria (e io che con il cel non riesco nemmeno a scattare una foto decente…), e ci si accomoda in religioso silenzio perché si sta per assistere ad un evento unico, ci si sente privilegiati. Alla fine ci rendiamo conto che questa Guerra dei mondi altro non è che un remake, come era forse facile intuire ma non da auspicare per chi conosce l’estro di Steven Spielberg, uno che il cinema l’ha sempre fatto oltre che guardato.
Un’altra versione dunque, più pomposa, pleonastica, di un lavoro che qualcun altro ha già svolto cinquant’anni fa. Perché allora alimentare un mistero che non esiste? Forse per amplificare un evento che non c’è? Peggio. Nascondere i timori di un’emulazione che, per un regista come Spielberg, non ci doveva essere per nessun motivo. La paura dei fantasmi di Indipendence Day, film che già una volta gli ha fatto cambiare idea sul fare o no un Guerra dei mondi, gli ha imposto una cura maniacale e sottrattiva dei tipici cliché da “invasione aliena” del tipo dischi volanti che entrano nell’atmosfera e grandi monumenti che si sbriciolano sotto i raggi degli invasori… Questo forse anche il senso di un radicale cambio di prospettiva: dal catastrofismo globale, osservato da mamma America che veglia su tutti noi, a quello di un nucleo familiare dove un certo cataclisma ha già colpito spaccando in due la famiglia stessa e lasciando due figli senza nessuno da poter chiamare papà. Ray Ferrier (Cruise) ha ben poco dell’intellettuale protagonista del libro di Herbert George Wells (1898), è invece un operatore di carico al porto di New York maggiormente devoto alla sua Ford che a Dio, con due figli che vede solo nel fine settimana e una moglie (Miranda Otto) che si è rifatta una vita con un colletto bianco. Poco dopo l’arrivo dei due figli imbronciati iniziano strani fenomeni atmosferici, nubi variopinte e fulmini che cadono ventisette volte nello stesso punto. Di lì a poco usciranno dalla terra i letali “tripodi”, macchine di sterminio con raggi polverizzanti e Cruise con l’unica vettura funzionante di tutto l’Est America, inizierà la sua fuga per la salvezza.
La paura è eterna, costante, ma altrettanto mutevole. Byron Haskin realizzò un film come reazione ai timori dell’atomica e della Guerra Fredda, le paure di oggi espresse da Spielberg sono quelle dell’attacco terroristico, del sempre costante timore di perdere tutto ciò che si ama, di un incubo che possa prendere forma fisica come è successo l’11 settembre. E allora via al citazionismo e ad un film che, in quanto ad effetti speciali, ritroveremo sicuramente alla Notte degli Oscar. Ripensiamo a Signsquando il gruppo si nasconde nelle varie abitazioni e nella cantina dove un folle ed imbolsito Tim Robbins vuole affrontare gli alieni con un fucile a pallettoni, c’è Incontri ravvicinati del terzo tiposaccheggiato di quegli alieni non più benevoli e di quei suoni non più comunicativi ma terrorizzanti, c’è Titanic quando il traghetto viene rovesciato da un tripode, Salvate il soldato Ryan per la seguente battaglia collinare con i carri armati, un po’ di Minority Reportquando una sonda si intrufola nella succitata cantina di Tim Robbins dando la caccia agli ospiti per cinque interminabili minuti e un misto tra Jurassic Park e Godzilla sui confronti di scala metrica tra aggressori e vittime. L’alieno poi non ha la linea fine e lucente di Incontri ravvicinati, ma ricorda un E.T. con classica testa triangolare ed occhi grandi, inespressivi e di un un nero profondo. Ma c’è pur sempre Steven Spielberg che qualche sequenza d’impatto ce la regala, come il passaggio di un treno in fiamme, il fiume di cadaveri, un aereo di linea frantumato in tanti pezzi davanti ciò che rimane della casa di Cruise. E poi c’è lui, un Tom Cruise in sofferenza per una parte da anti-eroe che gli va proprio stretta. La dignità attoriale è infatti affidata ai due pargoli: Justin Chatwin, volto emergente del cinema indipendente USA, passato di recente al Sundance con The Chumscrubber, e Dakota Fanning, una Jessica Lange “zippata” in una undicenne.
Un film fatto per stupire dunque, intrattenere, basato sulle grandi cifre, ad iniziare da quei 128 milioni di dollari di budget dichiarato, per continuare con le oltre 400 sequenze digitali ad opera del già collaudato Dennis Muren, le centinaia di comparse (alcune illustri come i suoceri di Cruise che sono i protagonisti del film del ’53) e le tante location disseminate lungo la costa orientale degli Stati Uniti. Un film intessuto intorno a momenti di tensione e azione, con i prodigi della CGI elevati all’ennesima potenza. Forse tra un ventennio rivedremo questo film e lo prenderemo come unità di misura dei progressi dell’effetto visivo digitale, per ora possiamo analizzare solo la sua povertà di fondo, la sua banalità narrativa, restando con un senso di amaro in bocca per non aver visto nulla di nuovo. In effetti a pensarci bene una vera e propria invasione c’è stata, le 10.000 copie del film immesse nel mercato internazionale, di cui 650 solo in Italia, e anche una vittima c’è: è quel formicaio di piccole uscite nazionali, quei film dei registi di casa nostra fatti con le sovvenzioni del Ministero e tenuti in frigo per due anni, buttati in qualche saletta tra i vicoli delle grandi città che, un po’ per l’estate, un po’ perché esce La guerra dei mondi, non andrà a vedere nessuno.
di Alessio Sperati