Quando si dice il destino: come può la semplice adesione ad un progetto in Antartide, tanto rischioso quanto intrigante, affrontato da un biologo amante della natura e delle sfide impossibili, diventare in pochissimo tempo un caso cinematografico internazionale merito della testimonianza filmata di quella incredibile avventura? Pura fortuna; certo Luc Jacquet, l’interprete di questa favola moderna, garantiva un’attività di esploratore dovuta alla bella prova già fornita con un documentario sulla vita del leone di mare, abituale frequentatore delle regioni polari, ma mai avrebbe potuto pensare di avere le condizioni necessarie per trasformare un reportage di viaggio in un lungometraggio da grande schermo. La marcia dei pinguini o dell’imperatore che dir si voglia è una straordinaria sorpresa di un genere riscoperto (merito gran parte della Francia) e profuso nelle sale di tutto il globo. Microcosmos, Il popolo migratore, e in ultimo Genesis sono solo alcuni dei titoli che hanno favorito la diffusione di idee realizzate con una tecnologia appropriata per esportare un tipo di prodotto adatto a tutte le età.
I distributori di mezzo mondo si sono adoperati per rendere l’evento usufruibile un po’ a tutti con la solite difficoltà di casa nostra: se in Francia infatti ben tre voci si avvicendano per narrare le sorti di una specie a rischio di estinzione e in America non si è badato a spese preferendo un commento di tutto rispetto affidato a Morgan Freeman, in Italia la scelta di prendere un camaleonte (autentico trasformista della voce, merito di una lunga e proficua attività radiofonica) come Rosario Fiorello, non si è rivelata del tutto vincente. Neo a parte, questo lavoro, accompagnato dalla splendida musica di Emilie Simone che fa il verso un po’ troppo alle sonorità raggelanti della inimitabile Bjork ma anche ad una crepuscolare Tori Amos o a formazioni quali Sigur Ros (band elettroniche, tra l’ambient e il trip hop sempre di matrice nordica) è sensazionale per la grazia con il quale si mescola alle fantastiche immagini. Il regista non segue la tradizione del marchio Disney, con l’inserimento di una “morale” in grado di accompagnare lo spettatore nella visione divulgativa, al contrario si sente più vicino al valore della scoperta e della ricerca di un Rudyard Kipling.
L’intervento dell’uomo si è limitato infatti nello spiare con delle speciali macchine da presa collocate su un congegno, fatto scivolare su una sorta di monopattino, le fasi più importanti della vita dell’animale: in particolare la danza-unione; la separazione fra la femmina, alla quale è riservato il compito di procacciare cibo per il piccolo e il maschio che invece deve proteggere con il calore corporeo l’uovo ancora chiuso; l’addio fra il nuovo arrivato e la sua famiglia per calcare le stesse orme dei provati genitori. In effetti la formula ha esiti notevoli perché le scene per nulla ritoccate o filtrate da interventi esterni si fondono in modo compiuto con il racconto sentimentale: tra i momenti di maggior interesse vi è la lotta per difendere il pulcino, protetto dalle insidie dell’inverno (il vento e il gelo che possono vanificare la preziosa attesa distruggendo l’uovo non appena sta per schiudersi); questo terribile evento potrebbe indurre le femmine alla follia (un comportamento non così lontano dalle logiche umane) fintanto da rapire l’uovo di un’altra mamma. È forse in questo canto di amore e morte che La marcia dei pinguini si distacca dai suoi precedenti: lo sguardo dell’unico grande fratello ancora esistente, avulso da strategie commerciali (la madre matrigna natura) impone e detta allo stesso modo le leggi dell’esistenza gioiosa e sofferta, e il caso che ad impressionarle vi sia un occhio umano non può essere che una fortuna.
di Ilario Pieri