Potrebbe essere questo il passo decisivo perché il figlio di Anthony Perkins riesca a ritagliarsi un ruolo importante nel cinema di genere di questo decennio. Longlegs di Osgood Perkins esce con un battage pubblicitario di tutto rispetto e passa alla Festa del Cinema di Roma con un buon successo di pubblico. Aveva già provato a dire la sua nel 2015 con February – L’innocenza del male, nel 2016 con Sono la bella creatura che vive in questa casa e nel 2020 con Gretel e Hansel; curioso che i nomi dei fratellini della celebre fiaba tedesca siano rigorosamente al contrario, così come lo scorrimento dei titoli di coda di Longlegs, così come un vinile ascoltato al contrario. Perkins vuole intessere il suo cinema di satanismo e Rock anni ’70.
Il protagonista di questo suo ultimo lavoro è l’agente Lee Harker (Maika Monroe) alle prime armi ma con un talento innato, personaggio ispirato alla Starling de Il silenzio degli innocenti e alla Rooney Mara della saga Millennium di Stieg Larsson. La sua protagonista, dice il regista/sceneggiatore «dimostra una sorta di abilità speciale. Ha una notevole intuizione, è mentalmente dotata e i suoi punteggi nei test di percezione sono molto al di sopra della media. C’è qualcosa di strano e di molto talentoso in lei».
E proprio grazie alle sue intuizioni l’agente Harker viene rapidamente assegnata a un caso che sta mettendo a dura prova il Dipartimento, una lunga serie di stragi familiari apparentemente senza alcun collegamento tra loro. Padri che fanno strage della loro famiglia prima di togliersi a loro volta la vita. Persone diverse, armi diverse, ma sulla scena del crimine sempre la stessa firma, una lettera scritta in codice (alla Zodiac) firmata da un certo Longlegs.
Fisicamente il presunto “suggeritore”, per usare un termine alla Donato Carrisi, non è sul luogo del delitto, eppure è una presenza continua, inquietante e incombente. Perkins ci comunica fin dall’inizio la sua intenzione di non mostrare subito il male nella sua interezza. La prima scena è un’inquadratura in 4:3, come se si stesse guardando una pellicola in Super-8 vecchia e ingiallita; e con questa inquadratura così stretta non riusciamo a vedere il tizio con le gambe lunghe che si rivolge alla bambina facendole “cu-cu?”. L’autore sa perfettamente che il thrilling arriva dall’invisibile, dall’incomprensibile.
E in effetti il terrore non arriva direttamente dai colpi inferti alle vittime, ma dalle atmosfere innevate e silenziose dell’Oregon, dai silenzi interrotti da suoni lontani, da passi nella notte. Il brivido arriva dai suoni magistralmente realizzati da Eugenio Battaglia, sound designer con la passione per l’horror, che riesce a inventare atmosfere da lui stesso definite “ipnotiche e subliminali”.
Secondo il regista, Longlegs è un film pieno di veli, di strati sottili avvolti intorno così da rendere la realtà opaca, impedendo allo spettatore di vedere ciò che è realmente presente, nonostante sia proprio davanti ai suoi occhi. Un vero amante del thriller non vuole vedere corpi sbudellati ma il male che prende la sua diabolica forma nella mente del spettatore più che sullo schermo e in questo Perkins c’è in parte riuscito. Dico in parte perché l’agente Harker non è il solito detective dalla vita distrutta e pieno di vizi, è proprio un personaggio patologico. Inoltre, l’elemento soprannaturale toglie un po’ della credibilità al tutto e poi il colpo di grazia finale arriva da un Nicolas Cage truccato da sembrare Ornella Vanoni.
Longlegs è quindi un thriller corretto nelle grammatiche di genere e nelle atmosfere visive e sonore ma che pecca nella caratterizzazione caricaturale dei suoi personaggi che sono così estremi da “spoilerare” la loro specifica funzione nell’intreccio. C’è il fanatismo della madre di Harker, la famiglia americana apparentemente perfetta spezzata dal trauma e c’è il satanismo, il tutto presentato bene ma cucinato male.
Il film si rivela un poliziesco convenzionale con una grammatica osservante, stilisticamente all’altezza ma che sembra aver usato poco abilmente gli elementi in gioco. C’erano contenuti che potevano essere sviluppati meglio e più lentamente, come lo stretto rapporto tra fanatismo religioso e satanismo in situazioni in cui gli estremi si toccano ed esplodono come nitroglicerina. La purezza del bianco dell’Oregon nasconde il nero interiore. Non c’è alcun serial killer che viene a bussare alla nostra porta; il male è dentro ci ricordano i maestri di genere, ma forse Perkins avrebbe dovuto attingerne di più.