Quando una famiglia è troppo. Al cinema, s’intende. Se c’è la madre malata (Diane Keaton) che mantiene il segreto, il figlio gay (e sordomuto) col fido compagno (nero) pronto ad adottare un bimbo, la figlia che di bimbo ne ha già uno e un altro lo aspetta ma, in compenso, non ha mai il marito accanto neppure per le feste comandate, il maggiore con l’aria da vincente in arrivo dritto dritto da New York City che di quattrini ne ha fatti un bel po’ ma si porta al seguito una imbarazzante fidanzata che proprio in questa famigliola molto “liberal” non riesce ad inserirsi e, infine, la figlia adolescente, insofferente verso quasi tutto ma con le sue buone ragioni sempre a portata di mano. Se questa è la famiglia e se le storie che si vogliono raccontare declinano generi e sottogeneri, dalla commedia gay al dramma familiare, dalla farsa al melò al film natalizio, e se i registri più che miscelarsi si accavallano caoticamente ma, sia ben chiaro, senza riuscire a trasmettere una sola scossa, allora la famiglia Stone, protagonista di questo La neve nel cuore, risulta davvero troppo.
Troppo per un solo film e per un regista, Thomas Bezucha (anche sceneggiatore e, almeno sino a ieri, più meritevole con le parole che oggi con la macchina da presa), che crede che basti accostare, sovrapporre, addizionare, moltiplicare sequenze su sequenze, considerando del tutto marginale il (fondamentale) lavoro di cucitura e di sintesi, la sola cosa che poi definisce il senso di un film. E il rischio che si corre, osservando per due ore, è di riuscire ad annoiarsi sia pure assistendo a un vorticoso succedersi di piccoli grandi eventi familiari che, sulla solita corda fatta di nostalgie e rancori privati, potrebbero (dovrebbero) parlare a tutti. Che, poi, in mezzo a ciò si agitino (letteralmente) una malvestita (ma siano tra le pareti domestiche) ma brillante e briosa, come sempre, Diane Keaton, un’algida e puntigliosa Sarah Jessica Parker («In un personaggio che davvero non ha nulla a che fare con quelli che ho interpretato sino ad oggi» dice), una sprecata Claire Danes capace di fare tenerezza e poco più o il sempre divertente Luke Wilson, non conta poi troppo: tutti quanti funzionano ma insieme non bastano a risollevare le sorti di un film pleonastico in cui una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi miracolosamente si ricompatta dopo un lutto e davanti all’albero di Natale. E qui il regista pensa di poter mettere la parola fine. Finalmente.
di Silvia Di Paola