Gli incubi di Mel Gibson diventano film, ma con il Vangelo c’entrano poco
Un horror molto pretenzioso, questo terzo film da regista di Mel Gibson; una pellicola che condensa tante espressioni in due ore e poco più come un Bignami farebbe di un libro di storia. Poche parole, per giunta in latino e aramaico (quasi a voler dare un afflato di secolarità a un orrore che non ne ha nemmeno l’odore), e poche immagini rallentate, che fatte scorrere a velocità normale avrebbero prodotto un film di un’ora. Qualcuno dovrebbe spiegare al regista/sceneggiatore/produttore di questo film che Maria di Magdala non aveva commesso adulterio, e che la pronuncia del latino parlato dai Romani del tempo non era quella che la Gerini si vanta di aver studiato al liceo. Uno spot dunque (il linguaggio e la tecnica sono quelli) per la Chiesa Cattolica, o peggio, di reclutamento per nostalgici di quel cattolicesimo integralista che tanti danni ha fatto nella storia dell’umanità. Se Mel e Hutton Gibson rinnegano i dettami del Concilio Vaticano II e ce l’hanno a morte con gli Ebrei, problemi loro. Non è la comunità ebraica a doversi sentire in colpa per la morte di Gesù di Nazareth, semmai è quella cattolica, con i propri mortali silenzi/assenzi, a dover chiedere ogni giorno perdono, anche per la non presa distanza da questa pellicola.
La Passione di Cristo è stato distribuito senza limitazioni, dando modo anche ai bambini di venire a contatto con una visione malata e pericolosamente parziale della vita di Gesù. Provo personalmente pena per gli incubi che devono aver attorniato le notti di Gibson da tredici anni a questa parte, e che sono poi diventati il suo film, ma molti di noi cresciuti in un ambiente cattolico, hanno da tempo superato quel “senso di colpa” che ci viene gentilmente donato alla nascita subito dopo il taglio del cordone ombelicale. Le poche ricerche stilistiche e licenze poetiche che il regista si è conquistato pagando la non irrisoria cifra di venticinque milioni di dollari (vedi la lacrima che cade dal cielo o alcune interessanti prospettive di ripresa), non permettono di apprezzare un’opera che è in conclusione un pastrocchio di luoghi comuni e di immagini prese in prestito da artisti come Caravaggio, Michelangelo, Bosch, Pasolini, Rossellini e altri, che lui reinterpreta in modo turistico e totalmente superficiale.
Lo spettatore viene violentato con immagini corrosive per il suo apparato gastro-intestinale, che infastidiscono anche i benintenzionati; si è per assurdo talmente coinvolti che non ci si annoia, si rimane incollati proprio per vedere “fino a che punto si oserà arrivare”. Alla fine un sospiro di sollievo, il Cristo risorge e si alza come farebbe Arnold Schwarzenegger uscendo dalla palla di energia di Terminator. Inizia a camminare inquadrato di profilo, con le sue mani bucate dalle quali si vede attraverso. Un finale aperto che sembra preludere un Gesù 2 – La vendetta. Questo forse sarà il nostro incubo per gli anni a venire. Comunque siamo consapevoli del fatto che l’unico ad essere risorto, in senso cinematografico, è proprio Mel Gibson con il suo rinsanguato portafogli. Se dobbiamo fare dei complimenti, li facciamo a tutti quelli che si sono occupati della promozione di questo film: pur facendo forza su una delle storie più “gettonate” negli ultimi duemila anni, sono riusciti a riportare al cinema persone che non ci andavano da trent’anni. Forse però non ci torneranno per altri trenta…
di Alessio Sperati