La scoperta dell’ultimo fotogramma è che l’amore, quello vero, quello che capita una volta nella vita se capita, è “come nascere di nuovo, vedere la luce per la prima volta, respirare”. Un po’ poco, certo, ma basterebbe persino, a patto che la storia raccontata fosse un semplice racconto amoroso senza troppe pretese. Semplice, come giustificherebbe una chiusa di quel tipo. Semplice, come è (al di là di ciò che si crede) difficile realizzarne. Ma Pasquale Pozzessere nel suo La porta delle 7 stelle, oltre che diretto scritto insieme a Ugo Leoni, da oggi sui nostri schermi, alla semplicità non è interessato. Avverte: «Il mio protagonista è idealmente ispirato al Siddharta». Chiosa: «Se infiniti sono i modi in cui nasce una storia d’amore, infiniti sono quelli che la fanno vivere e, a volte, quello che attrae due persone è proprio la parte più oscura della propria vita». E aggiunge: «La donna che il protagonista incontra è quello che Stendhal definiva “l’amour passion”». E va bene. Il problema è che la sua scelta è il film teorico, quasi a tesi, che arriva a quella banale chiusa finale solo dopo aver zigzagato e spesso a vuoto. Perché i percorsi tortuosi possono, a volte, risultare intriganti al cinema ma se l’unica tortuosità sta nella sceneggiatura, iperscritta, invadente, pomposamente teorizzante, spalmata sui personaggi piuttosto che iniettata dentro di loro a dar spessore e anima, il movimento è a vuoto.
Allora si carica di troppo peso e pretese la storia di David (Stefano Dionisi), italiano che vive in India finché la madre non viene barbaramente violentata, assassinata e decapitata, che torna in Italia, cresce accanto a un padre che gli insegna la disciplina e il rigore, diventa pilota militare, abbandona l’Aeronautica quando sente che non può trovare lì nulla che non ha già trovato e afferra al volo un’altra occasione di lavoro, riesce ad arricchirsi, scopre “come ci si sente bene a provare tutto, possedere tutto, comprare tutto”, ma cerca ancora, ossessionato sempre da confini da superare, da limiti da violare e, soprattutto, ossessionato dalla memoria di quel trauma. Più che dalla memoria, dal non riuscire a dimenticare ma neppure a ricordare: dal sentirsi continuamente in bilico tra il passato che non passa e il presente in cui corre compulsivamente, senza soluzione di continuità, senza pausa, appunto senza respiro. Si carica di pretenziosi rinvii perché la sua storia di fallita elaborazione di un lutto deve (così esige il copione) specchiarsi nella storia di una donna che lui incontra e che, attraverso questa identità di destino e dopo lunghe peregrinazioni, saltabellando tra presente e passato, si scoprirà la sua metà, “la sua parte di eternità”. E, si badi bene, la scoperta deve avvenire proprio nel luogo esorcizzante, quello in cui il protagonista ha vissuto con la madre i momenti più belli, quello in cui non può dimenticarla. Tutto questo si consuma sulla carta, mentre i protagonisti (colpa ovviamente degli interpreti mai all’altezza ma anche del regista che li sovraccarica e della indefessa voce fuori campo) scivolano su queste vicende, sulla carta grondanti carne e sangue, distaccati, laccati come in una soap, mai credibilmente consapevoli, marionette nella mani di uno sceneggiatore prepotente. Tutto per arrivare a quella finale “scoperta” definitiva.
di Silvia Di Paola